Le carte ormai parlano chiaro. Da loro invece non una parola.
Non male lo scoop del prossimo numero del Domenicale: fornisce materiale per completare la biografia del decano del giornalismo Enzo Biagi, anzi: «Biagi rag. Enzo», come è riportato su un documento del Minculpop datato 20 gennaio 1944.
Biagi aveva scritto e riscritto quasi tutto, di sé: che fu balilla, avanguardista, membro della Gioventù italiana del littorio, del Gruppo universitario fascista, che aveva scritto su L’assalto e che vinse i premi Prelittorali, che suo zio fece la marcia su Roma e che suo cugino era un viceministro delle Corporazioni, ma soprattutto che infine, al Novantesimo, passò ai partigiani della brigata Legnano.
Non ci aveva raccontato, per esempio, che il Minculpop inviò 70mila e 500 lire da distribuire ai giornalisti del Resto del Carlino «sfollati o dissestati» da incursioni nemiche (gli Alleati) e non ci aveva detto che a Biagi rag. Enzo spettarono ben 3mila lire, segno di indubbia considerazione: al direttore fu dato solo il doppio e al segretario di redazione solo la metà.
Questo nel 1944, periodo in cui la ricchezza vagheggiata erano le «mille lire al mese» ma nondimeno anno di Marzabotto, delle Fosse Ardeatine e delle peggio stragi nazifasciste.
Ma qualche ragioniere, per fortuna, la sfangava.
(Da il Giornale del primo marzo 2007)
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Quanto sotto, invece, l’ha scritto Michele Brambilla:
In un mondo di voltagabbana, e nel giorno in cui Follini vota con Rifondazione, conforta sapere che c’è un hombre vertical come Dario Fo. Siete depressi perché ci sono troppe banderuole? Leggetevi l’autobiografia che il nostro premio Nobel ha appena pubblicato da Guanda, Il mondo secondo Fo, e troverete consolazione e ristoro.
A ottant’anni suonati Dario Fo ci consegna il racconto di una vita esemplare e tanti buoni propositi. «Ho ancora molto da fare: la battaglia per un mondo migliore, per un pianeta meno violento, per una città più a misura di uomo e di natura…» e via di questo passo fino – ça va sans dire – alla liquidazione di Berlusconi («Un giorno si troverà in mutande e bandana ad arrancare tutto solo») e all’impegno «per cercare finalmente di mettere a segno un buon governo, o almeno un governo decente».
Ed eccoci alla lezione sulla politica e sui voltagabbana. Dario Fo parte dal Sessantotto. «Un periodo stupendo», naturalmente. «Per qualcuno però anche l’occasione giusta per fare i doppi e i tripli giochi di comodo. Quelli che allora si professavano di sinistra dura e pura, e poi sono finiti come si sa». Fuori i nomi: «I Liguori, i Ferrara… Gente di cinismo impressionante, voltagabbana… O come Aldo Brandirali, oggi nelle file di Forza Italia e Comunione e Liberazione: da Servire il popolo a servire il padrone… Lo stesso salto della quaglia fatto, allo spirare dei primi venti berlusconiani, da Pecorella, Taormina, Bondi, Paolo Guzzanti, Tiziana Majolo». Conclude il Nobel: «Il trasformismo di certi politici è roba da far impallidire Fregoli». Altro che la schiena dritta di Dario Fo.
Però, c’è un però. «Per un periodo, pur se breve», Dario Fo «ha fatto parte della Repubblica di Salò», osserva l’intervistatrice Giuseppina Manin, coautrice del libro. Dario Fo non si sottrae, e risponde che quella «parentesi» lui non l’ha «mai negata». Ammette di essersi arruolato «per salvare la pelle». E, non rinunciando a tenere il ditino alzato, fa notare la differenza con un altro premio Nobel, Gunter Grass, che la sua militanza nelle Waffen-SS l’ha tenuta nascosta fino all’anno scorso. «Quello che più mi ha colpito della sua vicenda è il fatto
di aver tenuto quel segreto dentro per tutto il tempo. Grass ha convissuto con la sua colpa per oltre sessant’anni». E già, che imbroglione questo Grass.
Ma è proprio qui che la posizione vertical di Dario Fo si inclina, e che la schiena dritta non è poi tanto dritta. Perché il nostro Nobel ci sta prendendo per i fondelli.
La verità è che Dario Fo ha sempre non solo nascosto, ma anche negato – finché ha potuto – di essersi arruolato nella Rsi. Il primo a rivelare quel passato fu, nel 1964, Giorgio Pisanò; ma siccome Pisanò era un fascista, nessuno gli volle dar credito. Quando poi, nel 1975, a ricordare quella «parentesi» fu Giancarlo Vigorelli su Il Giorno, Dario Fo sporse querela, e la causa finì con la pubblicazione di un comunicato in cui si diceva che il futuro premio Nobel non era stato repubblichino ma partigiano.
Nel 1977 un piccolo giornale di Borgomanero che si chiamava Il Nord ritirò fuori la storia, e Dario Fo fece ancora querela. Commettendo, però, un errore che si rivelò fatale: concesse ampia facoltà di prova. E le prove della militanza di Fo nella Rsi vennero fuori, soprattutto per merito di un giornalista, Luciano Garibaldi, che pubblicò tutto su Gente: le fotografie, la testimonianza dell’ex camerata Carlo Maria Milani e soprattutto quella del capo partigiano Giacinto Lazzarini. Messo di fronte all’evidenza delle foto, Dario Fo aveva infatti cercato di sostenere una tesi ardita: disse di essersi arruolato nella Rsi come infiltrato dei partigiani. Ma Lazzarini al processo lo sbugiardò.
Altro che aver «sempre ammesso» gli imbarazzanti trascorsi. È scritto nella sentenza di quel processo per diffamazione contro Il Nord: «È certo che Dario Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso – e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali – anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell’infiltrato pronto al doppio gioco». E non è tutto. Si legge ancora nella sentenza: «Non è certo, o meglio è discutibile», che Fo abbia partecipato a dei rastrellamenti, «ma la milizia repubblichina di Fo in un battaglione che di sicuro ha effettuato qualche rastrellamento lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile».
Era un ragazzo, certo. E come si fa a non perdonare un ragazzo? Sono le bugie a ottant’anni che danno un po’ fastidio.
(da il Giornale del primo marzo 2007)