United Colors of “proprietà privata”

Segue post lungo e noioso il cui titolo avrebbe potuto essere “United Colors of Desalojos” o “Mapuche land is not for sale“.


La nota azienda tessile italiana Benetton restituirà (o donerà, secondo i punti di vista) 7.500 ettari di terra al popolo Mapuche. L’accordo sarà effettivo solo nel gennaio 2006 realizzandosi per mezzo della Provincia di Chubut che ridistribuirà l’appezzamento ai Mapuche-Telhuece.
Va riconosciuto alla Benetton, con le dovute riserve, un impegno attivo nella questione e proprio in quest’ottica di dialogo ed attenzione verso una realtà delicata che riguarda direttamente l’azienda trevigiana (la quale in Argentina possiede un impero da 900.000 ettari sul territorio mapuche, 40 volte la dimensione di Buenos Aires) è stato aperto un portale che è anche blog: BenettonTalk.
Il pezzo non può finire così, con un facile inno all’ego-altruismo, perché non si può ignorare la dichiarazione della deputata provinciale mapuche Rosa Chiquichano: «I Benetton non possono donare qualcosa che ad essi non appartiene». Vediamo perché.

La storia degli indios presenti in Cile ed Argentina è secolare, ma nota ai media tradizionali da relativamente poco grazie al noto centravanti “mapuche” Marcelo Salas e alla drammatica morte di un giovane (Alex Lemun) che aveva “occupato” un fondo mapuche in mano alla multinazionale Mininco.

È proprio l’occupazione di terre, infatti, che ha generato e continua a generare scontri con le multinazionali presenti in Cile ed Argentina: tuttavia non si tratta di questioni meramente legalitarie, nessuna affinità con il cofferatismo. Si tratta piuttosto del fatto che il popolo Mapuche è estraneo alla nozione occidentale e capitalistica di proprietà e per gli Uomini della Terra (Mapu Che) chi abbandona la terra cessa di esistere. Come ben chiarito nello stesso BenettonTalk per un mapuche “essere proprietario significa essere parte di un territorio, appartenere alla natura, essere il discendente di una comunità che anticamente lo abitava”.

La storia recente dei Mapuche in Cile coinvolge la dittatura del generale Augusto Pinochet («Non esistono popolazioni indigene, siamo tutti cileni») il quale abolì la proprietà collettiva negando la legittimità della restituzioni volute da Allende di circa 700.00 ettari. Oggi più del 90% delle proprietà mapuche sono privatizzate.

In Argentina cambia la storia non la sostanza: dopo la campagna militare guidata dal generale Roca che consentì all’Argentina di acquisire la sovranità sul territorio con il sangue (la storia la ricorderà semplicemente come Campagna del Deserto), la successiva costituzione del 1870 – riformata solo nel 1994 – di fatto ignorò la popolazione indigena, citata solo per l’impegno nell’evangelizzazione “dei popoli originari al cattolicesimo”. Passa qualche anno e l’allora presidente José Evaristo Uriburu – ripagando probabilmente gli sforzi economici inglesi nell’avventura militare – dona 900.000 ettari alla Compañia Tierras del Sud Argentino S.A. (poiché la Costituzione impediva la concentrazione in poche mani di vaste aree in realtà la devoluzione riguardò dieci cittadini inglesi). Nel 1991, quasi un secolo dopo e negli anni di Carlos Saul Menem, entra in gioco la Benetton che acquisisce la Compagnia per mezzo della ‘Edizion Real Estate’.

Arriviamo così alla situazione che coinvolge da vicino l’azienda dei fratelli Carlo e Luciano Benetton che oggi in Patagonia ha un impero da 270.000 ovini l’anno nei vari centri di produzione, oltre all’impianto di lavaggio Cosu-Lan che lavora otto milioni di tonnellate di lana all’anno: una delle principali fonti di materia prima per l’azienda tessile trevigiana.

Le critiche degli attivisti mapuche – già emerse nella nota causa legale dell’aprile 2003 che coinvolse una famiglia mapuche (rea di aver occupato un territorio Benetton) oltre al Premio Nobel Adolfo Perez Esquivel e Gianni Minà nei ruoli di intermediari con la Benetton – vertono essenzialmente su due problematiche: da una parte la questione ambientale e culturale (l’organizzazione Mapuche-Telhuece contesta la deviazione del fiume Chubut, la delimitazione del territorio con filo spinato, l’impossibilità per gli indigeni di pescare in fiumi e laghi) dall’altra quella dei diritti civili (si contesta l’utilizzo di manodopera a basso costo).
Va da sè: la Benetton contesta tutto e pone l’accento sulla creazione del Museo Leleque: storia partigiana della Patagonia secondo i mapuche.

Ora, la questione va al di là delle posizioni che si possono prendere in difesa dell’uno o dell’altro. E prescindendo dal naturale schieramento verso il quale ti spingono i sentimenti umani quando da una parte c’è un gruppo imprenditoriale e dall’altra una popolazione indigena autoctona, mi chiedo perché fino a poco tempo fa si sarebbe negato che la terra appartenesse al gruppo United Colors? Perché i proprietari sarebbero figurati solo come generici “italiani”?

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4 Commenti

  1. bentornato diego, grazie della notizia. ma perchè ti sembri voler nascondere con post inseriti sotto altri già pubblicati o con anteprime di una sola riga che è l’opposto del marketing? scappi dai commentatori molesti?

  2. interessante. tra l’altro l’argentina per decenni non ha voluto riconoscere l’esistenza di indigeni mapuche sul proprio territorio… si faceva una sorta di vanto di essere l’unico paese latinoamericano senza indigeni…

  3. FWD, solo coincidenze. Adoro i commentatori molesti, le reazioni scomposte, le critiche, i vaffanculo ben pronunciati. Molto meglio degli elogi, che riempiono la pancia e finita lì.

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