Che dire?

(di Riccardo Orioles)

MAFIA: IL BOSS ANTONINO GIUFFRÈ PARLA DEI RAPPORTI TRA COSA NOSTRA E FORZA ITALIA IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL ’99. CHE DIRE PER NON RISCHIARE DI ESSERE INCRIMINATI?

Informazione 1. Agenzia: “La mafia avrebbe sostenuto il progetto politico di Forza Italia. In particolare il senatore Marcello Dell’Utri avrebbe ricevuto appoggio elettorale da parte di Cosa nostra nelle elezioni del ’99. Lo sostiene il boss Antonino Giuffrè che da due mesi ha iniziato a collaborare con la giustizia dopo essere stato per anni uno degli uomini più vicini al boss latitante Bernardo Provenzano. Secondo il pentito, il capo di Cosa Nostra sarebbe riuscito ad agganciare i vertici di Forza Italia”.

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Questo commento non verrà incriminato per attentato all’ordinamento economico dello Stato.

Informazione 2. “Zitto, tu!”. Su ordine del Ministro della Comunicazione, è stata chiusa d’autorità dai carabinieri Telefabbrica, una “tv di strada” nata per sostenere gli operai di Termini contro i licenziamenti. Il raggio di trasmissione di Telefabbrica era di circa centocinquanta metri: non arrivava a coprire neanche l’intero paese, però evidentemente faceva concorrenza sleale alla Rai e a Berlusconi. “Chiudere noi è come impedire a due sordomuti di farsi dei gesti di saluto dai due lati della strada”. Messaggio chiaro: in Italia, comunica solo Uno. Tutti gli altri, muti. Telefabbrica non aveva la concessione governativa prevista dalla legge Mammì. Ma neanche Rete4, se è per questo: però Emilio Fede può trasmettere e gli operai di Termini no.
Info: convegno delle tv di strada sabato 14 a Bologna, in via Lenin 3 (Via Lenin? richiameranno Scajola).

Informazione 3. Piccoli Cianci crescono. In Sicilia c’e’ un sito che si chiama “Il dito” (www.ildito.it) ed è ispirato all’ex ministro Bianco, che nonostante le manganellate di Napoli e i passati buoni rapporti con alcuni dei cavalieri catanesi a Catania passa ancora – chissà perché – per progressista. Catania, d’altronde, è quel posto in cui la “sinistra” a suo tempo non trovò di meglio che candidare alle elezioni il povero Cecchi Gori, che alla fine si ritrovò non solo trombato ma anche inquisito per voto di scambio mafioso. Qualche settimana fa un collaboratore del “Dito” ebbe l’infelice idea di mandare un intervento (rispettosamente) critico nei confronti di uno dei notabili della passata giunta Bianco, la signora Giardina. Da allora in poi sul sito il suo nome non è più apparso; altri collaboratori dicono che è arrivato l’ordine di non pubblicarlo mai più per nessun motivo. Il direttore del sito è un certo Danilo Moriero, che fra qualche anno ritroveremo – I suppose – come addetto stampa del futuro governo CasiniD’Alema (con Bianco ministro dell’interno, naturalmente).
Ah: il “Dito” è stato entusiasticamente recensito, qualche tempo fa, in una pagina nobile di Repubblica, con una marchetta firmata – se ben ricordo- dal povero Valentini. Il fatto è che Repubblica, che in tutto il resto d’Italia è di sinistra, a Catania è legata a filo doppio con Ciancio, che le stampa l’edizione siciliana del giornale ma in cambio pretende – e ottiene – di non farla diffondere a Catania. Oltre ad alcuni favori “politici” minori, come quello di cui ha fatto le spese l’inconsapevole firmaiolo Valentini.

Occupazione. Dopo la Fiat (grisbì all’estero e via), e la Rai (scienziato pazzo che smanetta a caso su programmi e trasmettitori), sull’orlo del fallimento anche la terza grande azienda italiana, la Vaticano. I responsabili del management hanno infatti deciso che per motivi di sicurezza aziendale, e per taluni inconvenienti verificatisi di recente, non verranno più assunti dipendenti con tendenze omosessuali. La vigilanza dei locali, tradizionalmente affidata a giovani di bella presenza (per lo più svizzeri), verrà quanto prima devoluta a una serie di cyborg appositamente realizzati. Panico fra gli azionisti e minacce per l’occupazione.

La chiappa è l’oppio dei popoli.

Conflitto d’interessi. Carlo De Benedetti (Editoriale L’Espresso, Repubblica) e il socio Carlo Caracciolo, dopo molti boatos estivi che li volevano pronti a “scendere in campo”, hanno praticamente fondato e sostengono attivamente un’associazione politica (la “Libertà e Giustizia“) che si propone d’intervenire nel dibattito politico nazionale ed anche, logicamente, sui futuri assetti di potere. Non è una buona notizia. Personalmente, non sono lontanissimo dalla “linea politica” della nuova associazione (anche se trovo di cattivo gusto sfruttare il “logo” dei fratelli Rosselli, che erano decisamente un’altra cosa). Però ritengo deplorevole che un industriale della comunicazione usi il suo potere per intervenire nella politica nazionale. L’esempio è sotto gli occhi di tutti, e si chiama Berlusconi. Arrivato al potere, costui ha fatto pochissima distinzione fra gli interessi pubblici e quelli, d’imprenditore, che sono suoi particolari. E noi giustamente l’abbiamo denunciato come “conflitto d’interesse”. Ma abbiamo il diritto di denunciarlo solo se denunciamo anche qualunque altro possibile conflitto analogo, anche se “di sinistra”.
E questo è appunto il caso di De Benedetti. Rispetto a Berlusconi, è molto più vicino alle nostre idee: ma il principio è lo stesso, e va pubblicamente ribadito. “Libertà e Giustizia” è più civile di “Forza Italia“: ma, come lei, ha un padrone. La democrazia, è un’altra cosa.

Pregiudizi. Come si parla degli immigrati in tv? Quattro volte su cinque (secondo Censis, che ha monitorato le sette emittenti principali) come vittime o autori di fatti brutti. Si parla pochissimo delle donne immigrate (solo una volta ogni cinque) e in compenso si parla anche troppo dei minorenni (quasi metà delle volte). In ogni caso, di immigrati si parla quasi sempre in cronaca (nell’ottanta per cento dei casi) e non li si fa mai parlare in prima persona.

Processi. Chissà come va a finire, in Argentina, quello fra i Benetton e i Curinanco. Benetton è Benetton, quello dei maglioni e della lana, e dunque delle pecore: di cui le più pregiate si trovano in Argentina, dove la Famiglia ha comprato dunque una piccola fattoria, anzi una “estancia”, di circa seicentomila ettari: quanto due o tre regioni messe assieme. Sì: ma Curinanco? Anzi il clan Curinanco, visto che a quanto pare si tratta di una famiglia intera. Sicuramente qualche altra multinazionale o yakuza, o almeno qualche piccola cosca mafiosa locale.
Niente affatto: i signori Eufemio e Rosa Curinanco sono solo due, più i bambini. Ai primi di agosto si sono recati all’ufficio catasto della città di Esquel nella provincia del Chubut, chiedendo se un certo pezzetto di terra, in contrada Santa Rosa, fosse di proprietà privata o di demaniale. L’impiegato, consultati i libroni, ha risposto che per quanto risultava il terreno (un paio d’ettari circa) era di proprietà della Repubblica Argentina e non risultava coltivato da alcuno. Allora i due Curinaco hanno fatto regolare domanda, secondo la legge argentina, di occupazione del terreno a fine di sostentamento alimentare.
Detto, fatto: alla fine del mese, muniti di regolare autorizzazione, i due hanno si sono insediati terreno (con pentole, galline, marmocchi e compagnia bella) e hanno cominciato a coltivarlo. Hanno piantato patate, fagioli, grano, mais e altri ortaggi. Hanno dissodato buona parte del terreno faticando e sudando da mattina a sera.
Il capataz dei Benetton, però, vigilava. Il due ottobre si sono presentati dodici poliziotti armati, seguiti dalle guardie private dell’estancia, e hanno sequestrato tutto quanto. Un avvocato compagno, alla fine, si è interessato del caso: e ha fatto appello alla legge, che in Argentina prevede il diritto all’occupazione delle terre incolte. Pare che l’acquisto dei Benetton non sia del tutto regolare; e in ogni caso non hanno intenzione di coltivarci niente, ma solo di farci brucare le pecore. I nostri maglioni firmati, infatti, sono molto più importanti della cena di qualche campesino straccione.
Ora la decisione è ai giudici: Benetton vs Curinanco. Diversi bambini sono morti, in Argentina, quest’estate di fame. E l’Argentina era più ricca dell’Italia, una volta. Colpa delle multinazionali? Forse. Comunque, di gente con un nome e un cognome. Come il buon Benetton, che in Italia è democratico ma in Argentina è peggio – che è tutto dire – del suo concittadino Gentilini.
(Bookmark: www.censurati.it)

Fidanzati. Non saranno più frustati quelli di Teheran. La legge “islamica” (che in realtà con Maometto c’entra quanto il cardinal Giordano col Vangelo) prevedeva infatti venti nerbate per i ragazzi sorpresi mano nella mano per la strada: ma adesso la legge è stata abolita e ci si può baciare – con prudenza – in santa pace.

Inverno. Circa duemila le persone che vivono per la strada a Roma. fra loro, secondo i rilevamenti del comune, in aumento i casi di mamme con figlio piccolo che, avendo perso o non avendo mai avuto un laroro e una casa, sono costrette a vivere col bambino in ripari di fortuna (cartoni, angoli fuori vista delle stazioni, punti di marciapiede con grata di aria calda proveniente da un edificio). Tecnicamente questo è stato definito, dagli scienziati del comune, “barbonismo domestico”.

Numeri. Conta di più l’occidente o l’oriente? Uno, due, tre, quattro, cinque. Una mano. Sei, sette, otto, nove, dieci. Due mani. Una mano la stilizziamo con un “V”. Due mani con due V contrapposte, cioè una “X”. Per ogni singolo dito, ovviamente, basta scrivere una “I”.
Ecco, questo è il “nostro” modo di contare. Nostro non solo perché sono i numeri che vediamo ancora sui monumenti e nei testi letterari (Dante Alighieri contava ancora così). Ma perché nasce proprio da un nostro imprinting molto antico. La nostra, in origine, nasce come una civiltà molto individuale, in cui la casa conta molto più della piazza o del bazar. Lo scambio con gli altri individui è basato essenzialmente sullo status, non sul commercio.
Altre civiltà (in genere, quelle “orientali”) nascono invece fin dall’inizio coi grandi numeri – le decine, le centinaia, le migliaia – e hanno bisogno di lavorare rapidamente con essi, non di analizzare a fondo ogni singola (antropomorfica) unità. Un individuo di queste società, di per sé, conta poco ed è inserito da subito in una situazione di massa, un impero idraulico o qualcosa del genere. Non è quasi mai autosufficiente dal punto di vista alimentare ed ha subito bisogno di una rete molto complessa di scambi, il commercio. Per gestire quest’ultimo gli farebbe molto comodo un computer e, non trovandolo al bazar, è costretto a inventarsi qualcosa che gli si avvicini il più possibile, ad esempio un abaco.
L’abaco funziona già per strutture logiche, per posizionamenti qualitativi e non per semplice addizione di unità: la colonna delle decine è completamente diversa da quella delle unità ed ha bisogno di un software logico, non di una mera percezione fisica, per funzionare (contare sulle dita è usare semplicemente un hardware). Il passaggio successivo, naturalmente, è l’invenzione dello zero.
Tutto qua? No. I fenici e i greci, in un punto di snodo fra est e ovest, inventano – ma su un target del tutto differente – un altro software molto interessante, l’alfabeto. Tale è il successo di vendita di quest’ultimo, che ne viene immediatamente sviluppata una release che consente di utilizzarlo anche per i calcoli numerici (alpha vale uno, beta vale due, ecc.), una specie di Office (Word + Excel) di quei tempi.
Questo programma ha tanto successo che per un bel pezzo (grazie anche a un’accorta strategia di compatibilità col vecchio Conta-sulle-dita 3.1) copre tutto il mercato. Solo quando l’azienda produttrice, la Impero & C, va a ramengo (ma ci vorranno un bel po’ di secoli) la concorrenza orientale potrà finalmente piazzare la tecnologia Zero-based anche dalle nostre parti. Per questo ci è toccato correre molto alla svelta per recuperare il gap. Sempre ammesso che l’abbiamo *veramente* recuperato.

Cronaca. Roma. Sul 542 una bambina resta col vestitino impigliato dentro la porta. Il padre urla all’autista di aprire. Attraverso lo specchietto, l’autista vede che il padre non è affatto un bianco, bensì un egiziano. Gli risponde a male parole. L’egiziano reagisce. L’autista ferma il bus, si alza, picchia babbo e bambina e li manda tutt’e due all’ospedale. Il giorno dopo l’azienda dei bus dirama un comunicato per smentire tutto. Fatica superflua, perché sui giornali non era uscito niente, salvo un trafiletto in cronaca del Corriere.

Indiani e cow-boys. “Il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato…”. Gli stati uniti: il Dakota, l’Illinois, il Delaware… La maggior parte dei nomi degli Stati Uniti sono i nomi di antiche tribù indiane, che adesso non esistono più.
I Delaware erano dei raccoglitori-pescatori che vivevano sulla costa atlantica; una piccola tribù. Furono fra i primi a incontrare i coloni, e dunque fra i primi a estinguersi fino all’ultimo uomo.
Gli Illinois, nella zona dei Laghi, erano cacciatori; il loro incontro con la civiltà avvenne ai primi dell’Ottocento e il loro ricordo oggi sopravvive soprattutto nel logo di alcune automobili di lusso – le Cadillac – cui un generoso ufficio marketing volle dare il nome di un capo indiano.
I Dakota, infine – North Dakota e South Dakota – erano quelli che al cinema e nei nostri giochi dell’altro secolo venivano chiamati i Sioux. Da loro la civiltà occidentale arrivò abbastanza tardi, quasi a mezzo Ottocento; avevano avuto tutto il tempo di raccogliere e allevare i cavalli sfuggiti alle mandrie degli spagnoli e di specializzarsi come cacciatori a cavallo nella prateria; e di sviluppare un ethos, fra il cavalleresco e il calabrese, che ne faceva personaggi ideali per i film d’avventure. Batterono un paio di volte la cavalleria degli Stati Uniti e poi, non possedendo né artiglieria né politica, vennero a loro turno estinti.
Il capo, dal nome impronunciabile (approssimativamente tradotto in Toro), era l’incarnazione di tutto l’indianesimo e il terrorismo che popolava gl’incubi dei politici perbene. Non era un terrorismo inventato: le fattorie isolate – che i coloni, ignoranti o noncuranti della politica, impiantavano nel mare d’erba nonostante i trattati che lo vietavano – venivano assalite e bruciate alla prima occasione e i loro abitatori, uomini donne e bambini, uccisi. I giovani guerrieri tornavano poi a rifugiarsi nella tribù; pochi giorni dopo, una colonna con artiglieria piombava sul villaggio che li aveva accolti (o almeno su uno simile, che è lo stesso) e lo radeva al suolo, facendo attenzione a che non sopravvivesse nemmeno una squaw (matrice di futuri terroristi) o un papoose, terrorista fra pochi anni.
“L’unico indiano buono è l’indiano morto”: la frase, probabilmente, non fu mai pronunciata dal generale Sherman; ma effettivamente sopra gli indiani vivi non si possono innalzare città e fabbriche mentre sopra gl’indiani morti sì.
Le trattative con Toro furono dichiarate impossibili molto a lungo; alla fine, ci fu un trattato (anzi, due o tre trattati) in seguito al quale i Dakota consegnarono armi e cavalli mentre a Toro fu data autorità e indipendenza sopra alcune baracche, rapidamente invase, peraltro, alla prima occasione dalla truppa. Toro fu ucciso alla fine da un indiano civilizzato, uno scout dell’esercito, che gli sparò dopo una lite. Aveva avuto il tempo di essere portato in giro – in un momento “politico” – nel circo del Selvaggio West, che traversò l’Europa e gli Stati Uniti, e di essere intervistato da un giornalista.
“Gli uomini bianchi? Eh, ci hanno portato via tutto, non si sono comportati bene”. “E gli indiani? Cosa mi dice degl’indiani?”. Il vecchio capo dette uno sguardo in giro, guardò quel ragazzo con la divisa da scout, quella donna col crocefisso al collo, quel vecchio completamente muto barricato nei suoi pensieri, quel gruppo di bambini che giocavano vestiti di stracci d’uniforme, e gridando in inglese. “Indiani? Non ci sono più indiani. Io sono l’ultimo”.

Sono stati due i genocidi, almeno due. Uno fu l’Olocausto, scientifico e concentrato in pochi anni. L’altro, quello del Nuovo Mondo, ha richiesto due secoli – non c’era ancora un Hitler, né come tecnologia né come cultura – per andare a buon fine. Entrambi fanno parte di noi, entrambi c”insegnano qualcosa. Entrambi sono le tentazioni costanti della nostra parte malata. Dei due, in questo momento, il più pericoloso e attuale è il secondo. Spingere indietro, escludere, colonizzare. Avere una fase eroica, di rischi affrontati insieme, disciplinarsi fermamente, tener testa ai selvaggi, senza paura. E in premio di questo coraggio, alla fine, una famigliola felice che tranquillamente semina la terra (adesso sua) rimuovendo le ossa che affiorano, ultimo involontario lascito di altri esseri umani. Il genocidio riuscito, insomma.
La nostra bella civiltà – “bella” senza ironia; quasi con tenerezza – si basa anche su questo. Non rimuoviamo questo fatto. E non ripetiamolo, soprattutto.

Persone. Damiano Cusenza, a Palermo, ultimamente faceva il sindacalista dei Cobas. Ma era stato nel Sessantotto, nelle lotte contro Ciancimino, nell’antimafia degli anni Ottanta, nella Pantera e ora nella ricostruzione della società civile. Noi l’abbiamo avuto vicino con Avvenimenti e coi Siciliani, sia nei periodi “alti” che in quelli di bassa marea. Era uno di quel migliaio di compagni concreti e seri, mai entusiasti, mai scoraggiati, che la mia generazione ha regalato all’allegra sinistra italiana. Di mestiere, insegnava.

Persone. Qualche mese fa un gruppo di fiorentini – di Controradio, mi sembra – aveva avuto l’idea di proporre a Ciampi di far senatore a vita Caponnetto; non se n’è fatto niente, e per fortuna, perché poche isituzioni sono così screditate in questo paese come il senatorato a vita. Che è stato gioiosamente assegnato a un parassita fighetto come l’Avvocato e a un capo del Kgb italiano come Cossiga, e quindi non poteva finire sulle spalle di un italiano perbene come Caponnetto, servitore della Nazione e del popolo italiano.
Incongruamente, si mescolano nella memoria l’immagine del vecchio Presidente buono che riporta a casa il corpo di Berlinguer e quella di Caponnetto a Palermo ai funerali di Falcone. Caponnetto, in realtà, è stato il nostro Pertini. Uomini di Resistenza, tutt’e due; e tutt’e due fortunati. Vivere a lungo, servendo il proprio Paese, insegnando il coraggio ai giovani e la dignità a tutti quanti, e sempre sorridendo mitemente e non indietreggiando mai: commemorarli? Invidiarli, piuttosto.

Mio errore. Lisabetta Mugnai wrote:
La ringrazio per aver riportato il pezzo di Michele Gambino sul processo Andreotti pubblicato sulla niusletter di Pippol del 20.11.2002. La ringrazio anche per aver parlato di Pippol. Però l’indirizzo del sito è www.pippol.it (e non come erroneamente scritto pipponews.it)

AntonellaConsoli libera@libera.it wrote:

Piccolo d’uomo
Buona notte
piccolo d’uomo
buonanotte alle tue
braccine

Voi che ancora amate
Voi che ancora amate
conservatene l’essenza in uno scrigno
presto, che già comincia la bufera.

Comprò l’incenso e i fiori
Comprò l’incenso e i fiori
con gli ultimi risparmi
e ancora una volta
– solo per te.
Rimise a posto la bella stanza andata.

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