John C. Macidull, capo ingegnere del National Transportation Safety Board, un ente americano specializzato nelle inchieste sui disastri aerei, descrive una classica azione di guerra. Per la sua esperienza di pilota di aerei da caccia l’attacco al DC9 dell’Itavia è una manovra da manuale: “Nel momento dell’incidente, secondo i dati radar, l’oggetto non identificato venne fuori dal sole in direzione del DC9 e il DC9 stava guardando dentro il sole nella direzione dell’oggetto”. La scarna ma efficace descrizione aggiunge che l’oggetto non identificato non venne in collisione con l’aereo dell’Itavia ma attraversò l’area dell’incidente da ovest verso est ad alta velocità. Approssimativamente nello stesso tempo il DC9 precipitò.
L’attacco di un caccia avviene nello stesso modo: il pilota cerca di prendere posizione col sole alle spalle per sorprendere l’aereo nemico nella migliore condizione di visibilità.
Alle 20,56 del 27 giugno 1980 il volo IH 870 dell’Itavia si preparava a scendere verso Palermo e, quindi, aveva sulla prua il sole, nella discesa verso occidente. La voce del pilota Domenico Gatti, registrata dalla scatola nera, è troncata di netto, mentre sta dicendo una parola che può essere soltanto: “Guarda!”. Si ferma a “Gua…”. Col sole davanti agli occhi ha fatto appena in tempo e vedere l’oggetto non identificato di cui parla Macidull.
La ricostruzione dell’autorevole tecnico americano si basa sui dati rilevati dal sistema radar di Fiumicino. Per una fatalità o per un ingegnoso dolo il disastro avviene al limite della capacità di acquisizione della stazione radar di Fiumicino, che dopo Firenze ha preso il DC9 sotto il suo controllo. Il servizio Roma radar, composto dalle due testate Selenia e Marconi installate a Fiumicino, poteva seguire il volo del DC9 fino a una distanza massima fra le 130 e le 140 miglia. Nel punto in cui avviene il disastro, 129,5 miglia a Sud di Fiumicino, il DC9 era in piena visibilità per il radar Marconi, mentre per la Selenia era già quasi fuori portata. Il DC9, 33 tonnellate di peso, viaggiava a una velocità di 850 chilometri l’ora. La sua rotta era seguita da una battuta radar ogni sei secondi.
I ritorni grezzi dei radar, quantificati in ampiezza e tempo, producono dei dati che si chiamano plot. Il sistema di calcolo elettronico Atcas di Ciampino elabora i dati delle due testate in simboli matematici che precisano l’intensità degli echi di ritorno, la distanza dell’aereo, la direzione. A causa della rotondità della terra la visibilità di un aereo dipende non solo dalla distanza e dalla dimensione ma anche dalla quota. Il DC9 dell’Itavia alla distanza di 130 miglia da Fiumicino era visibile per Roma radar solo sopra i 2000 piedi. Il disastro avviene quando l’aereo si trovava a 25.000 piedi, cioè 7.200 metri, una quota in cui era ancora in buona condizione di avvistamento per il radar Marconi. Sul tracciato che segue la rotta dell’IH 870 lungo l’aerovia Ambra 13 si nota per un certo tratto una linea coerente di plot, poi improvvisamente appaiono delle tracce in parallelo. Le due serie di segnali procedono appaiate e per un tratto coincidono, ma poi una devia di novanta gradi.
I dati rappresentati motivano un’interpretazione che sembra coerente con quella data da Macidull sulla situazione finale. Un aereo militare, dopo aver volato sotto i duemila piedi per sfuggire ai radar di Fiumicino, si inserisce nell’aerovia Ambra 13 e rincorre il DC 9 ponendosi in coda, dove i piloti non possono vederlo. Su tutti gli aerei militari è in funzione il trasponder, l’apparecchio che fornisce i dati ai radar, ma il pilota del caccia lo tiene chiuso per non farsi identificare. Roma radar non s’accorge della presenza dell’aereo intruso perché i suoi segnali si confondono con quelli del DC 9 e nei tracciati si accavallano.
Con la virata a 90 gradi il caccia comincia l’azione di guerra perché va a prendere posizione col sole alle spalle. Nell’esame della situazione finale Macidull ha considerato di scarsa utilità cinque plot, di segnale debole, che si intravedono a est della rotta del DC9 prima che inizi la serie di segnali accavallati. Potrebbero essere le tracce dell’inserimento del caccia, proveniente da nord, sulla rotta dell’aereo civile. L’attenzione del tecnico americano si rivolge soprattutto a tre plot che l’elaborazione di Roma radar segnala con grande evidenza ad ovest del DC9, immediatamente prima della fine del volo. E’ su questi plot che il tecnico costruisce la sua tesi dell’attacco condotto contro l’aereo dell’Itavia dall’“oggetto non identificato che esce dal sole”.
Le riflessioni dei periti di parte civile sulla situazione descritta da Macidull aprono un altro interrogativo sulla trama di Ustica. Il pilota dell’aereo attaccante si inserisce sulla rotta dell’aereo civile con manovre da manuale per sfuggire ai radar, vira verso ovest di 90 gradi quando è a 35 chilometri dal punto dell’attacco, fa una nuova virata di 90 gradi, quando è a 24 chilometri dal DC9, per mettersi con le spalle al sole. Il caccia ha a bordo un radar che vede fino a venti chilometri: non può essere sufficiente al pilota per svolgere tutto il suo programma. Gli è stata necessaria certamente l’assistenza di una base in terra o in mare.
Lo schema Macidull diventa un riferimento d’obbligo per la folla di periti, più di cinquanta, che lavorano nelle varie commissioni d’inchiesta istituite in Italia. La prima, varata il giorno dopo il disastro dal ministro dei Trasporti Rino Formica e diretta dal dott. Luigi Luzzatti, giunge dopo un paio d’anni alla conclusione che la causa più probabile del cedimento strutturale del DC9 dell’Itavia è stata un’esplosione, ma si dichiara non in grado di precisare se l’ordigno “fosse statocollocato a bordo prima della partenza ovvero provenisse dall’esterno dell’aeromobile”.
Quattro anni dopo l’incidente anche la magistratura nomina un collegio di cinque periti: il decreto firmato dal giudice istruttore Vittorio Bucarelli nel novembre del 1984 affida la direzione dell’inchiesta all’ingegnere Massimo Blasi. Dopo cinque anni arriva finalmente il responso di questa commissione: “Tutti gli elementi a disposizione fanno concordemente ritenere che l’incidente occorso al DC9 TIGI dell’Itavia sia stato causato da un missile esploso in prossimità della zona anteriore dell’aereo”. Dalle varie analisi compiute risulta la presenza su un frammento metallico trovato in uno schienale di residui di esplosivo T4 e TNT, normalmente impiegato negli ordigni militari. Quelle tracce di esplosivo, prima della perizia Blasi, sono sfuggite agli esami fatti nei laboratori dell’aeronautica militare.
Sembra che le conclusioni del collegio peritale a nove anni dal disastro disperdano definitivamente le nebbie. Ma anche questa volta i parenti delle vittime di Ustica hanno una delusione. Il giudice Bucarelli non considera concluso il lavoro dei periti e pone nuovi quesiti sulla traiettoria dell’aereo che si è inserito nell’aerovia Ambra 13 e sulla provenienza e caratteristiche del missile lanciato contro il DC9 dell’Itavia. Passa un altro anno e le critiche dell’aeronautica militare alla perizia Blasi producono un effetto clamoroso: il 5 giugno 1990 Blasi annuncia al giudice di essersi ricreduto e presenta un’altra conclusione, condivisa anche dal perito Cerra. Secondo i due, una lettura più attenta dei tracciati di Roma radar fa escludere la presenza di un altro aereo nei pressi del DC9. La loro nuova tesi è che le tracce di un pezzo del DC9 nel momento della caduta erano state scambiate per il secondo aereo. I due periti tornavano dunque alla tesi che l’incidente fosse “da attribuire ad un effetto esplosivo interno”.
Naturalmente il ripensamento di Blasi e Cerra sollevò un’ondata di sospetti. Alcuni giornali si chiesero se i due periti fossero stati influenzati dalla Selenia, l’industria elettronica, che deve la prosperità dei suoi proventi soprattutto alle mega commissioni del ministero della Difesa.
Gli altri tre periti del collegio – Ennio Imbimbo, Leonardo Lecce e Mario Migliaccio – portano invece nuove prove a conferma dello schema Macidull. Secondo le loro conclusioni il DC9, in volo verso Palermo, è incrociato quasi ortogonalmente da un aereo, la cui superficie nella riflessione sugli schermi radar equivale a quella di un caccia militare. Le prime tracce di questo velivolo si osservano almeno da novanta secondi prima dell’incidente e indicano una traiettoria iniziale di conversione da nord verso est. Nel momento in cui il radar Marconi registra l’ultimo segnale del trasponder del DC9, alle 20,59, la distanza del caccia è di sole cinque miglia. Il lancio del missile può essere avvenuto da cinque a dieci secondi prima di questo momento. Dall’elaborazione dei dati del radar Marconi risulta che il DC9 ha un’impennata e poi precipita portato dal vento perché non ha più una guida. Il rilevamento delle tracce del caccia dura fino a cento secondi dopo l’incidente. L’aereo attaccante fa una rapida salita e scompare nelle altissime quote fuori dell’aerea di detezione del radar Marconi. L’ipotesi di un’esplosione a bordo è esclusa dai tre periti per l’evidente traiettoria delle schegge dall’esterno verso l’interno, per la mancanza di tracce evidenti di combustione nel relitto e sui cadaveri recuperati e perché i rumori registrati dalla scatola nera nel momento del disastro avrebbero dovuto essere superiori di cinquecento volte se una bomba fosse scoppiata dentro l’aereo.
Per undici anni governi e autorità militari hanno opposto il muro di gomma a tutte le ricostruzioni che attribuivano la causa del disastro aereo di Ustica ad un’azione di guerra. Ma la verità era conosciuta fin dalle prime ore dopo la sciagura. Il generale Saverio Rana, presidente del Registro Aeronautico, all’indomani della sciagura, dopo un primo esame dei dati radar, dice al ministro dei Trasporti Formica che l’aereo dell’Itavia è stato attaccato da un caccia e abbattuto con un missile. Dopo cinque mesi la conferma dell’azione di guerra viene dalla secca ma essenziale ricostruzione di Macidull. Né Rana, né Macidull sono presi in seria considerazione dal governo presieduto dall’on. Francesco Cossiga, che ha assunto un orientamento diverso e non è disposto a modificarlo. Il presidente della società Itavia Aldo Davanzali, per aver condiviso la tesi del “missil”, è indiziato del reato di diffusione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico: l’iniziativa è presa dal giudice romano Santacroce a cui è affidata l’inchiesta sul disastro. Il ministro Formica, pur dichiarando in parlamento di ritenere verosimile l’ipotesi di un missile, finisce con l’adeguarsi alla tesi che l’aereo è precipitato per un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manutenzione, e il 17 dicembre 1980 annuncia la revoca della concessione delle linee aeree all’Itavia. Otto anni dopo lo stesso ministro rivelerà in un’intervista all’Espresso che a convincerlo tempestivamente che il DC9 era stato abbattuto da un missile era stato il generale Rana, “un compagno, un amico”, nel quale aveva piena fiducia. La morte per tumore del presidente del Registro Aeronautico ha privato l’inchiesta di un prezioso e leale testimone. E’ strano che Formica nella sua veste di ministro dei Trasporti non abbia speso molta energia per togliere all’aviazione civile una macchia che ricadeva sui militari. In seguito all’intervista all’Espresso, interrogato dalla commissione parlamentare sulle stragi, disse di aver parlato dopo l’incidente solo col ministro della Difesa Lelio Lagorio delle informazioni avute da Rana. Non era andato oltre, trattandosi non di “certezze” ma di “opinioni e intuizioni”.
Memorabile é la dichiarazione di Lagorio, il 6 luglio 1989, davanti alla stessa commissione. Conferma che Formica gli parlò del missile, ma commenta: “Mi parve una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso”.
Dietro le bugie sulla tragedia c’erano livelli morali molto bassi. Quanti sapevano, quanti sanno, quanti hanno mentito? Durante il suo primo governo, Cossiga aveva fatto un rimpasto. Il 14 gennaio 1980, dimessosi il ministro degli Esteri Franco Maria Malfatti per motivi di salute, aveva assegnato quel ministero all’on. Attilio Ruffini, spostandolo dalla Difesa, e qui aveva messo l’on. Adolfo Sarti, titolare di una richiesta di iscrizione alla Loggia P2. Era il tocco finale ad una strategia che attribuiva alla P2 una funzione importante nella direzione degli apparati militari: piduisti erano i generali Santovito e Grassini, capi dei servizi segreti, piduista era il prefetto Walter Pelosi addetto al coordinamento dei servizi segreti, piduisti erano alti gradi delle forze armate, dei carabinieri della polizia. Non tutti erano entrati nella P2 perché per fare carriera avevano bisogno delle raccomandazioni di Licio Gelli. A motivo della loro iscrizione si può solo immaginare che avessero avuto assicurazione dalle sedi politiche più autorevoli dell’affidamento alla Loggia di compiti vitali per la sicurezza. Negli ultimi tre mesi del primo governo Cossiga tutta la piramide militare, compreso il ministro che ne aveva la responsabilità politica, era sotto il controllo di Gelli.
Il 4 aprile 1980, nel secondo governo Cossiga, Lagorio sostituì Sarti passato alla Pubblica Istruzione. Quando avvenne l’incidente di Ustica Lagorio, ministro socialista, poteva scegliere fra due strade: esigere la trasparenza sulle responsabilità del marasma dei soccorsi e delle disfunzioni colpose o dolose nel sistema di difesa radar, oppure adeguarsi al ruolo di ministro che non vuole essere il manovratore e non vuole disturbare chi lo fa davvero. Lagorio forse non volle sapere di più neppure quando il suo amico Formica gli dette l’imbeccata. Gli amici di Gelli, invece, con tutta probabilità sapevano. E’ difficile immaginare la ragione per cui Cossiga e gli uomini del governo legati alla P2 sarebbero stati tenuti all’oscuro, o peggio ingannati, da un apparato a cui si erano dedicati con cura appassionata. Senza la copertura politica della P2 sarebbero riusciti i militari a creare il muro di gomma?
Si, Neri, tutto bene, poi però hanno recuperato quasi tutto l’aereo dal fondo del mare e si è scoperto che non c’erano schegge, ergo niente missile. Tu “rifuggi la forumizzazione” ma ti ostini a pubblicare cotanta bruttura.