Il meglio del 2003

Da tre giorni sto correndo come un podista e asciugandomi le meningi nonche’ passando al microscopio il cosciente della megliomusica del 2003. Perche’ farne una lista qualsivoglia?
Un po’ per ribadire con tutta evidenza ogni mancanza di talento per la scrittura, che altrimenti sarei scrittore o almeno giornalista, invece no. Forse per farmi compatire adesso che gli anni offuscano il discernimento pure sulle canzonette. Credo sia per farvi gli auguri, gnuaddicted.

Il meglio del 2003.

Giovinastri.
The Decemberist – Los Angeles, i’m yours. Rubando da Benny and the Jets di Elton John, Colin Meloy scrive la serenata dell’anno per LA. Neanche fosse Tony Pierce. Joss Stone – The chocking kind e Dirty man. Katie Melua – Closest thing to crazy e My aphrodisiac is you e Learnin the blues. Lizz Wright – Salt. Mentre le sedicenni di Virzi’ non si capacitano tra il Che e Britney Spears le coetanee internazionali vanno a scuola di blues cantandolo qua e la con giovanile ardore (la Stone) stentorea grazia (la Melua) inusitata potenza (la Wright). Per i pignoli la Stone ha effettivamente 16 anni, la Melua uno in piu’. Della Wright, essendo americana, le biografie quotano: twenty something. Thrills – Big Sur. I veri eredi di Byrds, Eagles, Poco e compagnia countryrockeggiante arrivano da Dublino. Logico no? I’m in a Cali(fornia) state of mind, sembrano dire, anni 75-76: barbe, capelli, droghe e steel guitar. 50 Cent – 21 Questions. Sentendo i 50 cent volevo vomitare, non c’entro niente con loro. Ma per 21 questions rubricherei 9 spari pure io.

The Shins – Young pilgrims e Turn a square. Avete presente quello bravo che passava il compito a tutta la classe? Se oggi il tema fosse: Canzonette e invenzioni melodiche, James Mercer sarebbe quello bravo. Lemar – Dance (with you) e 50/50. Dotato e’ dotato. Tra i mostri generati dalla reality-tivi e’ quello meglio. Canta che sembra Seal pero’ le canzoni divertono. In Inghilterra Lemar, oltre oceano Ruben Studdard, noi: Giulia Ottonello. Amici (nel senso defilippiano del termine) come metafora dell’Italietta cantante. Peter Cincotti – Mrs Brown. Per chi ha perso Frank Sinatra in Bulli e Pupe. Josh Kelley – Poker Face. Kem – Love calls. Non fosse che ha avuto altro a cui pensare, il mondo nel 2003 avrebbe trovato un attimo per rallegrarsi con il nuovo Huey Lewis (Kelley) e con il nuovo Al Jarreau (Kem). Paragoni costruiti per compiacere il fosforescente mondo della critica musicale, che senza –lo sapete- e’ come un topo in trappola. Nivea – Laundremat. Da rubricare tra le impennate dell’abbecedario musicale di R.Kelly, Laundremat lancia nel roboante etere delle giovani starlette, la ragazza dal nome di crema, meno atomica delle rivali, ma primadonna nella recita di fine anno. Lewis Taylor – Lovin you more. I dolori del giovane Marvin. Jet – Are you gonna be my girl. Fountains of Wayne – Stacey’s mom e Hey Julie. Le radio americane intonano in coro: Rock on!

Ratificati.


Josh Rouse – 1972 e Love vibration e Rise. Sensazionalista per imprinting, dico: Carole King e Tapestry. L’impressione e’ quella di assistere in presa diretta alla costruzione di un mini-capolavoro a cui anche i marzianini –dategli il tempo di arrivare- guarderanno con devozione. Profilassi: consumare e non in dosi omeopatiche, controindicazioni: rifiuto dell’immondo, leggi Darkness e Stroke. New Pornographers – July Jones e Testament to youth in verse. Corde d’acciaio di una chitarra elettrica, i pornografi, gente comunque rispettabile, sanno di Marshall fumante. Lo Yodel finale di “Testament” gli vale un’ipotesi plebiscitaria. Jamie Cullum – What a difference a day makes e Singing in the rain. Jools Holland/Fun Lovin Criminals – Fly me to the moon. Volenterosi tentativi di dare rock ‘n roll alla casa comune di certo piacevole jazz. L’aria da primo della classe del signorino Cullum ostacola, la voce (vieppiu’ narcolettica) e’ comunque utile alla causa, l’arte di arrangiare rende luminoso il futuro di questa popstar del jazz. Aver fatto parte degli Squeeze durante i primi 80 ti consegna la deflagrante autorita’ che di solito si riserva ai superumani. Nessuno, da Bono a Sting, da Jamiroquai (che fine ha fatto?) a Smokey Robinson rifiuta una comparsata negli scoppiettanti More Friends di Jools Holland, giunti ormai al vol.3. La paginata sgangherata e divertente con Huey dei Fun Lovin Criminals, interprete di una alcolica Fly me to the moon, e’ da antologia.

Rufus Wainwright – Harvester of heart e What a world. Figura donchisciottesca, paraninfo solitario, trova i suoi mulini a vento nelle ristrettezze del pop. Combattute a suon di voce, pianoforte, stiletti e aggraziate marce. The Sleepy Jackson – Good Dancers. Mi piace questa cosa che un disco pop dal sapore buono non debba essere fatto per forza con mozziconi di canzoni, strimpellanti tracce di disagio, o funeree atmosfere a la Muse. Quelli di The Sleepy Jackson sono solchi solidi solo un po’ schizofrenici. Con il valore aggiunto di Good dancers: il piu’ tenero omaggio a George Harrison. Altro che Beatles nudi.

Parvenu.
Outkast – Pink & blue e Prototype e Take off your cool. Extravaganza buona, non follia di maniera. A volerla dire tutta, settanteschi afro a parte, c’e’ del conformismo nel disco (nei dischi: Andre3000 e Boi) dell’anno. Conformismo o citazionismo da enciclopedia. Questo e’ old school, questo e’ R&B, questo e’ freestyle, questo e’ jazz al tempo dell’I-Pod. Questo e’ Prince come sarebbe stato se non avesse sbarellato. Ecco, soprattutto Prince, il cui ritratto occhieggia invadente dal comodino di Andre3000. Lucinda Williams – Righteusly. Stacey Kent – Making Whoopee. Mai ricevuto un buffetto dalla conventicola del country. Quello della Williams, dopo millanta prove di avvicinamento, e’ un uppercout (colpo famoso ai tempi di Monzon). La Kent invece e’ tutta coccole e squisiterie frugate dal catalogo dei classici. Se a offrirtele e’ lei, e’ un conto, in mano ad altre spariscono (Cindy Lauper) o annoiano (Diane Krall).

Musiq – Soulstar e Moment in life. A forza di sentirsi dire che e’ il nuovo Stevie Wonder, Musiq ha fatto un disco orpelloso, con le sue brave eccezioni. Il talento (mostruoso) ne esce ridimensionato. Santo ragazzo, hai voglia a fare lo StefanoMeraviglia se sei nato a Philadelphia! Jack Johnson – Traffic in the sky. Il massimo del ritmo concesso e’ quello di un Michael Franks a pancia piena, siete avvisati. Ma la noia, molto piu’ snob del divertimento, e’ aggraziata fino al sublime. Alicia Keys – You don’t know my name e Wake up. “E’ tutta sedere”, dicevano invidiose le rivali alla ricerca di uno scranno nel tempio dell’R&B (nota dispensa di milioni). La Keys risponde nel nuovo album con due assolute perle soul. Poi che noi la si voglia far salire comunque (con la Lopez e la Minogue) sul podio della natica griffata, e’ un altro discorso.

Monumenti.
Steely Dan – Things i miss the most e Everything must go. Le loro canzoni si dovrebbero esporre al Met, al Louvre, al Prado, agli Uffizi (nonostante il nome impiegatizio) e in tutti i musei del mondo, credetemi. Anche quelle del settecentoquarantesimo disco. Elvis Costello – Still. Avete un pianoforte e la vostra voce, che non e’ una bella voce, ma particolare. Come si dice di certe ragazze non proprio carine. Vi chiedono di tirarne fuori poesia. Sara’ per il matrimonio con la Krall ma Costello ha (di nuovo) compiuto la missione. Al Green – My problem is you. Van Morrison – Somerset e Goldfish Blues. Abbiamo da poco festeggiato un altro capodanno che vorremmo presto dimenticare. Insomma sappiamo che quando devi divertirti per forza va a finire che non ti diverti. Figurarsi se devi fare un disco bello per forza, magari dopo anni di ruggine e con l’aggravante di chiamarti Al Green. Persino i microfoni oltre al produttore Willie Mitchell, erano gli stessi dei bei tempi. Finisce che il caparbio Reverendo lascia esterrefatti con una maestosa My problem is you che allontana la malinconia e, in generale, con un disco contemporaneo. Non e’ cosi per Van Morrison, il suo debutto con la Verve (ma tanto all’irlandese dal cuor di leone che gli frega a questo punto, Verve o un’altra, che paghi bene piuttosto) delude. Somerset no.

Simply Red – Sunshine. D’accordo Ginger Red faccio ammenda: anche se sei bianco e di Manchester, il soul lo sai fare. E anche le hit. R Kelly – Step in the name of love. Isley Brothers – Prize Possession. Tutta farina del sacco di R. Kelly, cui Ronald Isley aggiunge la seta della sua voce. Step in the name of love (Remix) e’ la canzone dell’anno. Blur – Out of time. Disseppellite la melodia dai suoni cupi di chi ha da essere indie un po’ per convenzione. Fate attenzione all’interpretazione quasi da crooner. Out of time e’ la (seconda) canzone dell’anno.

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2 Commenti

  1. io aggiungerei il fantastico garota moderna di rosalia de souza..cmq concordo su tutto anche su quelli che non cosnosco! )

  2. permettetemi (non dirò mai: mi consenta) di consigliare gli ultimi di Willard Grant Conspiracy e Neil Young, e anche quello dei Calexico,
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