La pausa pranzo è fatta per cantare

I professionisti e gli impiegati milanesi, romani, bolognesi sono tanti Zelig.
Cambiano faccia a seconda delle ore. Serissimi al mattino quando siedono dietro al computer aziendale, tutti frizzi e lazzi quando sono in pausa pranzo.

Le pubblicità di alcuni prodotti ci consegnano un paio di istantanee su questo mondo di mutanti.
Se è vero che i creativi della réclame sanno leggere i tempi meglio di tanti altri, c’è da credere allo spaccato di bar in cui un anziano ma ripulito gestore gorgheggia le virtù della Manzotin e delle patate. Cantano anche i giovanotti incravattati e i donnini in tailleur: le-patate-la-patate. E ridono tutti.

Altro bar scena simile. Tre amici, presumibilmente di ufficio, gustano un gelato mentre danno sfogo alla loro insopprimibile voglia di libertà e, usando piedi, cucchiaini e tavolo come succedaneo di percussioni, intonano “My sharona”. Una signora con fare zitello li ammonisce con lo sguardo severo e loro… ridono sotto i baffi. Ah, l’evasione!

Dunque si sbagliava Ennio Flaiano quando scriveva nel 1960: “Solitudine in città. La gente al bar, che mangia panini in attesa di tornare negli uffici. Tutti masticano guardando nel vuoto o fissando la strada attraverso la vetrina”.

Oggi, 2003, quella solitudine non c’è più.
Solo che sarebbe bello – mentre si mastica e si canta le-patate-le-patate – gettare uno guardo amichevole nelle teste del folksingers .
Chissà.

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2 Commenti

  1. E’ la nuova frontiera della finzione che quasi tutti vivono, e i pubblicitari l’hanno colta. Ora non si ammette più che chi lavora fa una vita di merda. Gli stessi schiavi dichiarano che va bene così e vogliono convincersene e convincere facendo gli allegroni saggi nella loro spensieratezza. Le paghe sono da fame, la pensione lontana come Saturno, e altrettanto confortevole, il capo insopportabile, e via così ? Non va più la denuncia alla Paolo Villaggio, il mostrare in chiave grottesca ciò che si è. No, adesso il controllo sociale richiede che tutti si dimostrino convinti di vivere nel modo più appagante che si potesse mai immaginare. Se sostieni il contrario, “ma cosa fai, gufi ? E allora gli operai, e gli albanesi, e gli afghani e quelli senza una gamba e quallei senza due, cosa dovrebbero dire ?”.
    I pubblicitari, che non sono ciechi nè tonti, l’hanno capito e anche provocato, per cui la pausa pranzo, da apoteosi dell’alienazione, perchè è la prova provata e mal digerita che ti sputtani tutto il giorno (e quindi tutta la vita) al lavoro, viene dipinta come esplosione di gioia di vivere.
    Comunque, io lavori part time, 5 ore al giorno e poi mi torno a casa e la pausa pranzo mi dura 19 ore. Povero, ma ricco di dignità.

  2. E se invece non fosse altro che il nostro miglior modo di adattarci ad un ambiente architettonicamente ed umanamente freddo, grigio, antico: appartiene ad un mondo diverso, un mondo di ex contadini, un mondo povero, un mondo “distante”: si era distanti gli uni dagli altri, ciascuno nel suo appezzamento di terreno, ci si riuniva al villaggio una volta al mese, ma niente di più. C’era desiderio di avvicinarsi. Quel mondo è stato costruito usando gli elementi più semplici che l’uomo avesse a disposizione, quegli elementi che tutti sono in grado di capire e sono in grado di capire le regole che ad essi si associano, parlo delle rette, delle perpendicolari e delle parallele, avanti a perdifiato, griglie interminabili che si incrociano, allargabili a piacimento. Erano i tempi delle prime infrastrutture, reti telefoniche, gas, luce elettrica: era più facile e remunerativo portarle a questi enormi reticoli che nelle sconfinate campagne.

    Oggi la situazione è cambiata. Potremmo espanderci, allontanarci, grazie alle connessioni telefoniche ed informatiche, nonchè alle connessioni wireless.

    Ma non lo facciamo.

    Sarà perchè in fin dei conti ci siamo adattati fin troppo bene a questo nuovo ambiente, e a questo adattamento hanno contribuito anche le patate-le patate?

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