Quel pranzo keynesiano lungo 150 anni (e nessuno che paga il conto)

Si fa un gran parlare, nelle istituzioni europee, di exit strategy dalla crisi economica grazie all’iniziativa dei governi attraverso gli investimenti pubblici, in quella che viene riconosciuta come la sintesi della cosiddetta “ricetta keynesiana”.

Alla truppa dei keynesiani si arruolano schiere di insospettabili come il Ministro dell’Economia italiana Giulio Tremonti, che non si era mai distinto nei primi anni del suo magistero per l’accento messo al sostegno pubblico della domanda ma che oggi, soprattutto quando si trova di fronte ai grand commis dei grandi Etat (Francia, Germania, UE) tende a colorarsi di socialdemocratico per rivendicare il primato della politica sulla finanza selvaggia; salvo poi ammonire che tutto deve avvenire in un percorso di riequilibro dei bilanci pubblici e che sarebbe meglio emettere Euro-Bond a nome dell’Unione piuttosto che BTP italiani. Insomma, per rinverdire quel caro vecchio detto: keynesiani con il culo degli altri.

I politici hanno tutto il diritto di rivendicare la propria superiorità morale rispetto al mercato (“il mercato quando serve, la politica dove necessario” è il sinistro slogan che gira nelle stanze d’Europa) e di proporre le loro idee, purché accettino il principio di realtà, e scontino le loro responsabilità.

Volendo ancora di più vulgare la ricetta keynesiana essa si può riconoscere in situazione di deficit di Bilancio Pubblico, quando le spese superano le entrate fiscali: in questo modo, finanziandosi a debito, il governo dà una spinta al ciclo economico odierno investendo in progetti di spesa a lungo termine (investimenti), oppure fornendo moneta per i consumi correnti, sostenendo in questo modo la quota di domanda che compone il PIL.

Ma lo stesso Keynes non riusciva a essere Keynes per 24 ore al giorno: riconosceva i limiti delle sue teorie e ne sottolineava la portata in casi di natura straordinaria, quando per effetto di spiriti depressi gli attori del mercato non riuscivano a dare propulsione all’economia. Alla spinta supplettiva pubblica doveva tuttavia seguire il ritiro del pubblico, all’impulso doveva seguire la ritirata, al deficit di bilancio dovevano seguire l’avanzo dei conti e il pareggio del bilancio pubblico, per poterlo riutilizzare in situazioni di emergenza quando il ciclo tornasse con la testa in giù.

Invece la classe politica europea è praticamente keynesiana da sempre. Prima ancora che Keynes nascesse. Il politico ha nella sua natura di spendere più denaro di quanto incassi (soprattutto perché è pubblico, cioè non suo). E’ la formula del consenso, è l’orizzonte limitato del cacciatore di voti che messo di fianco alla Zecca dello Stato non riesce a trattenersi dal rubarli o dal regalarli alle clientele, solo occasionalmente investendo in strade e ferrovie.

Dalle serie storiche della Banca d’Italia scopriamo che nel 1861 il debito pubblico italiano equivaleva a 1,7 milioni di euro di oggi. A fine 2009 lo stesso debito pubblico ammonta a 1.783 miliardi euro. In pratica una crescita annua del 9,75% per 150 anni. Una crescita inarrestabile, a un tasso di tipo cinese. Con punte di crescita boom oltre il 100% nei periodi 1910-1920, 1940-1950 e in tutti i decenni successivi, 100% di crescita negli anni cinquanta, negli anni sessanta, negli anni settanta e negli anni Ottanta. Con riduzione della crescita solo negli anni Novanta e Duemila, seppur continuando a salire in maniera sostenuta. D’accordo, nella nostra Storia ci sono state le due guerre mondiali con annessi debiti di guerra, ma poi? Non si è sempre fatto ricorso al debito pubblico per inflazionare l’economia? Non si è sempre fatto i keynesiani con i soldi dei cittadini? Senza però mai pensare al rientro del bilancio? Al pareggio? In un’ottica realistica l’impulso keynesiano dovrebbe durare al massimo una generazione, con benefici e rientro del debito entro la generazione successiva. Ma si noti che nei 150 anni di Storia Italiana il Bilancio Pubblico non è praticamente andato MAI in avanzo. Lo Stato non ha MAI risparmiato. Sempre speso più di quanto incassava.

Che senso ha oggi, pure in mezzo alla crisi economica, dire che è necessario essere keynesiani. Ancora? Di nuovo? Quando lo si è sempre stati nella propria Storia con i risultati che ci ritroviamo oggi. Con il 10% di disoccupazione, in piena recessione economica, senza più spazio per sfondare nuovamente il bilancio pubblico? Raddoppiare di nuovo il debito statale in soli dieci anni come in tutto il secolo scorso? Impossibile. Lo sanno gli italiani, lo sanno i francesi e lo sanno i tedeschi che fino a pochi mesi fa erano molto meglio di noi ma oggi lo sono un po’ meno.

Insomma, caro Tremonti, in questo pranzo keynesiano lungo tutti i 150 anni di storia repubblicana non è tanto il caso di pensare a quale pietanza si può ancora ordinare (anche perché 500 miliardi di euro di debito pubblico, ovvero il 28% del totale, sono merito suo durante la reggenza al Ministero dell’Economia), se ci sia ancora qualcosa da mangiare secondo la ricetta di John Maynard.

Si tratta piuttosto di capire quando e chi pagherà il conto di questa abbuffata.

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8 Commenti

  1. “pranzo keynesiano lungo tutti i 150 anni di storia repubblicana”

    Veramente fino al 1946 c’erano i Savoia…

  2. “nel 1861 il debito pubblico italiano equivaleva a 1.700 euro di oggi. ”
    ehm…su quale pianeta? SUl pianeta Terra il debito pubblico italiano del 1861 era pari alle entrate (vale a dire che per ogni lira di tasse che entrava ne uscivano 2), roba che neanche negli anni più spendaccioni del craxismo:
    http://www.ilportaledelsud.org/images/storia/bilancio1861_7.jpg
    e 470.000 lire del 1861 valgono MOLTO di più di 1700 euro di oggi, ovvero circa 4MILA MILIARDI di lire, cioè 2 miliardi di euro. Che sembrano comunque pochi, ma sul bilancio dello stato di allora pesavano per la metà, ergo in un bilancio odierno sarebbero circa un milione di euro di debito pubblico. IN UN SOLO ANNO!

  3. @Juliafan, hai ragione, è approssimativo, ho corretto in stato unitario

    @giovanni, nell’articolo c’era un refuso, non 1.700 euro ma 1,7 milioni di euro

  4. Uno stato non può fallire perché può sempre stampare la moneta che gli serve (facendo fallire i risparmiatori). Ma noi con l’euro come stiamo messi? Quali sono le regole?

  5. alcune cose sulle quali non concordo, o non del tutto:

    a) il post da per scontato che il debito pubblico dipenda dall’aver seguito Keynes, e mi pare una premessa poco corretta. Se lo Stato italiano, ad opera dei suoi amministratori infedeli e corrotti, spende per la costruzine di un troncone autostradale o di un ospedale o di un ponte su uno stretto una somma dieci volte il reale valore, e la differenza va in tasca a un corruttore che porta tutto alle Cayman, quella è una spesa che certamente contribuisce a incrementare il debito pubblico. Ma è colpa delle teorie di Keynes?

    b) Leggo da tempo che la stima delle imposte nette evase è di 100 mld di euro. Ovviamente il debito pubblico si alimenta non solo di uscite ma anche di mancate entrate. Keynes predicava l’evasione fiscale?

    c) Ma vogliamo essere per 5 minuti così rigidamente legati al gioco causa effetto (nel caso, Keynes-debito pubblico) come appare Jonkind nel post. Bene. Forse nel 1861 c’era un debito pubblico risibile in confronto a quello attuale. Ma c’era anche la pellagra nelle campagne padane, e al Sud si viveva con il maiale in casa (i ricchi, che almeno avevano casa e maiale). Oggi no. Se di Keynes è colpa del debito, di Keynes sarà anche il merito di non beccarsi più la pellagra (noi padani) e di avere il maiale nel suo bravo porcile (voi del Sud).

    La Germania di fatto eternamente socialdemocratica e quindi keynesiana ha un debito pubblico, vado a memoria, intorno al 60% del PIL: un valore assolutamente accettabile (circa la metà del nostro, in rapporto al PIL), pur avendo dato a decine di mln di persone standard sociali elevatissimi.
    E dunque.

  6. Chi conocsce il pensiero di Keynes?

    “…Non sembri poi strano che una tassazione possa risultare tanto elevata da pregiudicare il suo obiettivo, e che al contrario, considerato un sufficiente lasso di tempo per raccoglierne i frutti, una riduzione dell’imposizione abbia invece maggiori probabilità di riequilibrare il bilancio pubblico piuttosto che un aumento.”
    John Maynard Keynes
    (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta)

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