(prefazione parte I – noioso andante)
Nella scienza economica si parla di mercato per definire quello spazio teorico nel quale la funzione microeconomica del singolo individuo si incontra con la funzione macroeconomica dei fattori di produzione. Il risultato è la definizione di una quota di domanda e offerta di prodotto/servizio ad un dato prezzo di equilibrio, alto o basso che sia. Il prezzo (di equlibrio) assegnato ai beni/servizi è la caratteristica tipica del mercato. Senza il prezzo non c’è mercato. Senza prezzo (giusto) non c’è mercato (in senso tecnico)
(prefazione parte II – abbastanza noioso)
Lo Stato non fa parte del Mercato ma può entrarci a piacimento. O per regolarlo come arbitro o per interferirne come soggetto all’interno della funzione micro/macro. Secondo i liberisti lo Stato dovrebbe limitarsi a regolare il mercato oppure a “ripararlo” quando il mercato fallisce. Secondo gli assunti della socialdemocrazia il mercato non è in grado di realizzare gli ideali naturali della vita sociale tanto che lo Stato deve entrarci in maniera permanente come soggetto uber alles.
(intermezzo – gioioso)
Chi scrive è un liberista per cui raccomanda allo Stato di entrare nel Mercato solo quando questo fallisce, in senso tecnico.
(prefazione parte III – vivace, alla fine)
Contrariamente a quanti molti credono la recente crisi finanziaria, o dei subprime, non è una degenerazione del mercato ma un suo fallimento. Un fallimento reso evidente dalla mancanza del prezzo (giusto) dei titoli subprime che non “prezzavano” la componente di alto rischio dovuto al loro sottostante (“hey, signore banche, state investendo miliardi di euro in debito contratto da famiglie di negri degli slumps di Miami che comprano case che non potranno mai ripagare, siete sicure di quello che fate?”); il tutto attraverso titoli scambiati non sul mercato regolato ma “over the counter” con la benedizione della Federal Reserve e del Governo Americano che pompava denaro gratis nel sistema e stimolava i consumi tramite sgravi fiscali e boom del credito. Un fallimento del mercato “causato” dall’intervento dello Stato.
(Atto Unico)
Arrivo al punto: ci sono mercati che falliscono e mercati che funzionano. Nei primi ci mettiamo il mercato finanziario dei derivati di cui sopra. Nei mercati che funzionano includiamo quello dell’automobile che viene sovvenzionato dagli Stati, da diversi anni, senza un fondamento alcuno.
Tra i mercati che stanno fallendo, in senso tecnico, c’è il mercato della musica registrata, l’industria musicale: a livello mondiale, l’industria musicale perde circa 1 miliardo di dollari di incassi all’anno, più o meno a partire dal 2000, anno che possiamo far coincidere con il decollo della banda larga su Internet, che oggi, in Europa Occidentale, vale per gli operatori ISP un fatturato di circa 50 miliardi di dollaro l’anno. Di questi 50 miliardi di fatturato almeno 10 miliardi di dollari finiscono al fisco tramite IVA sulle bollette Internet.
Secondo alcune recenti stime il 95% del consumo di musica digitale non viene pagato dai consumatori, per il fenomeno detto pirateria informatica. Solo il 5% della musica viene acquistata a pagamento. Il travaso teorico del fatturato dal supporto fisico a quello digitale sta avvenendo in maniera molto rapida (il CD è pronto a scomparire) ma con una dispersione del 95% degli incassi, come se per estrarre petrolio da un oleodotto lo si continuasse a bucare in più punti, lasciando aperte le falle. Di questo passo la musica l’industria musicale sarà scomparsa in meno di una decade. Con effetti disastrosi sull’indotto.
Si stanno dicendo molte cose sull’industria discografica: che è guidata da incapaci, che è troppo avida, che la sua dissoluzione servirà ad innovare, spostando il denaro dal prodotto fisico agli eventi dal vivo ed al broadcast pagato dalla pubblicità. Ma queste osservazioni rischiano di essere marginali (ormai le discografiche hanno management simili all’industria di largo consumo e non sono necessariamente più scemi del resto del mondo) ed a volte esageratamente ottimiste (la pubblicità di YouTube vale 200 milioni di dollari a livello mondiale, molti dubitano possa essere un vero salvavita per labels ed artisti).
Nel quadro generale del fallimento del mercato discografico le curve di domanda ed offerta non si incontrano più e non si crea più il prezzo giusto. Supponete di essere all’Autogrill con un notebook a portata di mano. Potete scegliere di comprare il CD a scaffale a 19,99 euro oppure connettervi mentre vi fate un caffé scaricando lo stesso CD gratis dalla rete con una connessione peer-to-peer. Se nello stesso punto fisico/virtuale del mercato avete questa disponibilità non esiste una funzione di domanda, non scegliete in base al prezzo ma alla vostra appartenenza di nicchia. Se fate parte del 5% che ama la musica di qualità superiore oppure è incapace di usare il notebook comprerete il CD a scaffale. Se fate parte del 95% che non è più disposto a pagare per la musica lo scaricherete gratis. Non c’è interazione tra le due nicchie che fanno scelte di consumo pre-definite. Si arriva al paradosso di avere i super-consumatori (che ascoltano almeno 500 canzoni l’anno) che non vogliono più pagare mentre i consumatori occasionali (che ascoltano poca musica ma magari preferiscono regalarla tramite CD) sono gli unici disposti ancora a pagare per la musica. E’ opinione di chi scrive che il prezzo di vendita non sia un fattore decisivo, la curva di domanda non è elastica. Se anche il CD costasse 9,99 anzi che 19,99 la quantità di consumi rimarrebbe pressoché invariata. Ecco come si riconosce il fallimento del mercato: il prezzo non serve più a modificare i comportamenti d’acquisto scorrendo lungo la curva di domanda. Ecco perché lo Stato dovrebbe intervenire in qualche modo a sanare la situazione come per le Banche (smettendo invece di sovvenzionare l’Auto).
Ma non lo fa. O se lo fa interviene con la forza.
Qualche settimana fa L’Assemblea Nazionale Francese (incalzata dalla lobby discografica parigina, in primis Vivendi-Universal) ha votato la cosidetta Legge Hadopi, o “legge dei tre colpi”. Un pirata beccato a scaricare file illegali da Internet verrà identificato ed avvertito in maniera formale per le prime due volte. Alla terza scatterà la punizione draconiana: interruzione della connessione Internet. La legge ha il dono della semplicità di interpretazione ma una serie di vincoli quasi impossibili per l’applicazione (identificazione utente, costituzionalità dell’intervento, limitazione della libertà personale). Uno dei primi dossier che si troverà ad affrontare l’Euro Parlamento che oggi stiamo votando nei 27 Paesi dell’Unione è proprio la regolazione della materia tramite il cosiddetto “Pacchetto Telecom”. Il contrasto tra la Legge Hadopi e l’orientamento europeo è già emerso nei mesi scorsi tanto che la Francia ha un po’ addolcito la pillola avvelenata ai navigatori Internet ma la battaglia è ancora tutta da combattere.
Il vero limite della Legge Hadopi è che attribuisce totalmente il fallimento del mercato ai consumatori e li spaventa, cercando di ripristinare la situazione legale di partenza. Ma dimentica il beneficio dei fornitori di banda Internet, le dinamiche delle relazioni discografiche- artisti, il ruolo passivo dello Stato incapace di far mantenere la legge nella sostanza (la legge Hadopi potrà essere aggirata schermando l’utente finale tramite software già in partenza) ed incapace di innovare filosoficamente e tecnologicamente il mondo del consumo.
Credo invece che in questa fase di transizione e caos i Governi e l’Unione Europea (una Direttiva sarebbe necessaria) dovrebbero avere un atteggiamento più conciliante, d’attesa, riconoscendo che un fallimento di mercato va affrontato con strumenti nuovi.
Anche devolvendo solamente il 5% dell’IVA incassata sulle bollette Internet dell’Unione Europea (l’1% della bolletta complessiva) si renderebbe disponibile mezzo miliardo di Euro l’anno di aiuti per l’industria discografica e musicale. Non è davvero nulla paragonato agli interventi attuali per Banche e Auto. L’aiuto potrebbe essere distribuito come incentivo per ogni canzone venduta in maniera legale e debitamente tracciata dai sistemi di vendita digitale, CD e dalle associazioni autori (es. SIAE). Per ogni canzone venduta lo Stato fornirebbe un contributo integrativo, in maniera non dissimile agli aiuti agricoli (tipo quote latte), già in piedi in tutta la Comunità Europea.
Il contributo-musica servirebbe a tappare le falle e permettere all’industria discografica di finanziare la transizione ad un mondo nuovo, che ancora non si capisce quale sarà. L’incentivo avrebbe un fondamento di mercato e non una logica assistenziale cieca. Si premierebbe la musica che vende di più, in quota pro-rata, mantenendo l’idea di premiare ciò che piace al pubblico.
I provider ISP non verrebbero penalizzati, dovendo già loro investire i profitti attuali nell’ammodernamento della rete Internet sulla quale oggi non si fanno investimenti anche per timore della pirateria ed il lavoro delle lobby musical-discografiche-televisive.
Le case discografiche dovrebbero destinare il contributo a nuove produzioni ed alla ricerca di nuovi talenti.
Lo Stato dovrebbe ammortizzare il costo grazie alle maggiori vendite di musica ed ad un generale aumento del fatturato di sistema con maggiori introiti su connessioni Internet. Il sistema di incentivi dovrebbe rimanere transitorio, fino a quando venisse restaurata la funzione di prezzo e quindi il funzionamento del mercato in senso tecnico.
In più i migliaia di precari dell’industria musicale potrebbero arrotondare un po’ i loro redditi, focalizzandosi il più possibile nella produzione artistica, senza necessità di trovare un posto in banca per vivere (oggi, tra l’altro, non è facile nemmeno trovare un posto in banca).
Bella analisi.
Non tiente conto però dei fenomeni come iTunes Store e di tutti gli altri store che hanno dei fatturati dal molto florido all’abbastanza florido. Comprare il singolo brano, comprare pacchetti di brani o fare abbonamenti sono nuove azioni a cui il mercato classico della musica non era abituato.
E’ plausibile pensare che il prezzo non modifichi più di tanto il consumo ( arrivati a questi punti ) ma questi store dimostrano il contrario. Controprova è stato il recente aumento dei prezzi dei brani sull iTunes ( ok, non era proprio un aumento, era una promessa di abbassamento dei prezzi che però non si è verificato ed ha avuto effetti simili all aumento ), i brani scaricati sono stati molto meno salvo poi tornare a stabilizzarsi e poi crescere.
Insomma io non assolverei in maniera così leggera le case discografiche e non mi limiterei ad una mera analisi dei dati o ad una visione sistemica.
Il mercato, come tu sai, non è solo quello che hai enunciato nella prefazione.
http://blog.quintarelli.it/blog/2009/03/crisis-what-crisis-.html
Crisis ? what crisis ?
Il conglomerato media Vivendi Universal presenta i risultati 2008.
* Ricavi 2008: €25,392 milioni + 17.2% rispetto all’anno precedente (+18.3% se si esclude la variazione dei cambi delle valute).
* EBITDA: €4 953 milioni, + 4.9% rispetto all’anno precedente (+5.6% se si esclude la variazione dei cambi delle valute)
* Utile netto: €2,735 milioni; a perimetro costante (escludendo le acquisizioni, +8,4% rispetto all’anno precedente)
All’assemblea degli azionisti l’amministratore delegato proporra’ di aumentare i dividendi per azione a 1,4Euro
Nel dettaglio:
* Universal Music Group: ricavi in calo dello 0,2%, margini in aumento dell’11,6%
* Canal plus: ricavi in aumento del 4,4%, margini in aumento del 42%
* SFR: ricavi in aumento del 28,1%, margini in crescita dello 0,3%
* Maroc Telecom: ricavi in aumento del 5,9%, margini in aumento del 12,2%
un augurio a Vivendi: 100 anni di crisi cosi’ !
http://blog.quintarelli.it/blog/2008/07/crisis-what-cri.html
Fonte: i bilanci delle aziende, Valori in Dollari USA
magari c’e’ un errore, adesso ho chiesto ad un ricercatore di verificare.
se non ci sono errori, le major della musica, nel mondo, hanno perso ben lo 0,1% dei ricavi in 4 anni (certo, c’e’ anche l’inflazione)
Forse liberista, ma mica troppo :P :P
Sulla “prefazione parte III” la penso anch’io in tale modo: “Un fallimento del mercato “causato” dall’intervento dello Stato.”
Tanto da dire che è un fallimento della classe politica invero, non del mercato.
Si può capire la mia irritazione quando quelle facce toste dei politici biasimavano a tale proposito il mercato.
Vabbé, sorvoliamo sugli incentivi all’ auto e similari, che è meglio …
“Ecco perché lo Stato dovrebbe intervenire in qualche modo a sanare la situazione come per le Banche”
Qua non sono molto d’accordo, ed è uno passaggi alla base della frecciatina a inizio commento.
Ero contrario al Bail-Out, sia per principio, sia perchè ho enormi dubbi che possa aver migliorato la situazione anzichè peggiorarla.
Non credo alla efficacia a lungo termine di politiche per gli aiuti agricoli, ancor meno penso che ci si debba mettere lo stato nel business della musica registrata:
i provider e l’ industria discografica si devono metter d’ accordo tra loro ( che sia 1% o quel che vogliono).
Il fallimento, non farà fare salti di gioia, ma è anche un elemento utile.
E’ uno dei pochi modi di far pulizia di quel che non va.
Tra l’ altro anche nei fallimenti le cose che invece hanno valore vengono comunque solitamente acquistate per il loro effettivo valore da altre imprese private (che si tratti di Alitalia, di Banche o altro ).
Tra i mercati che stanno fallendo, in senso tecnico, c’è il mercato della musica registrata, l’industria musicale: a livello mondiale, l’industria musicale perde circa 1 miliardo di dollari di incassi all’anno,
puoi dire fonte e metodologia ? e confronti con altri mercati tecnologici o di srvizi ?
più o meno a partire dal 2000, anno che possiamo far coincidere con il decollo della banda larga su Internet, che oggi, in Europa Occidentale, vale per gli operatori ISP un fatturato di circa 50 miliardi di dollaro l’anno. Di questi 50 miliardi di fatturato almeno 10 miliardi di dollari finiscono al fisco tramite IVA sulle bollette Internet.
anche le linee aeree perdono, e anche i fotografi, e anche i giornali, ecc.
Il 95% del consumo di musica digitale non viene pagato dai consumatori,
anche qui, puoi citare fonte e metodologia ? e’ rilevante che sia digitale ? quale e’ la percentuale di musica (complessiva) che non viene pagata ? (considerando anche la radio).
e’ importante che sia musica solo o bisogna guardare all’intera industria dell’intrattenimento ? i piroscafi sono scomparsi ma gli aerei sono proliferati!
nota bene, non dico che non ci sia una questione, dico che non abbiamo metriche ottenute con metodologie condivise per esaminare il problema.
guardando solo i fatturati delle aziende dell’intrattenimento quotate in borsa, non mi pare di vedere questa grande crisi, ma una profonda trasformazione, si.
Non sono del tutto d’accordo.
Intanto: perché abbiamo a cuore il destino di chi lavora in questo settore? Perché ci interessano più dei commercianti in pelle di foca? O dei venditori di penne stilografiche? Io alla discografia ho dato un bel po’ di soldi – quando se lo meritava. Posto che so di avergliene dati comunque molti più di quanti se ne meritassero.
Ma veniamo al punto.
Un disco che interessa, vende. Anche di questi tempi. Nuovo o vecchio che sia. Così come un film che interessa continua a portare gente al cinema anche se tanta gente se lo scarica. Un certo grado di devozione al cosiddetto “supporto” tradizionale continua a esistere, se il supporto non è svuotato di senso, se è un oggetto che comunque suscita desiderio di fruizione più personale).
Ma soprattutto, uno degli assunti di base di questa analisi mi sembra mezzo pieno o mezzo vuoto: i dischi a 9,99, così come le ristampe a prezzo contenuto di dischi di catalogo, vendono piuttosto bene. Il disco di Giusy Ferreri che come si è detto da più parti “ha salvato l’annata della Sony” era uno di questi. Non credo che le armate di X Factor e Amici sarebbero state presenti in top 10 – e nemmeno J. Ax, se è per questo – con un prezzo più elevato.
Si potrebbe dire che erano EP (sei, massimo sette canzoni). Che poi, probabilmente erano della stessa lunghezza del cd medio di capireBattiato: il Maestro, quando non intona dolenti “Fleurs” degli anni 60, è solito donarsi al volgo per una trentina di minuti di cd, e a prezzo pienissimo. In ogni caso, tralasciando il disco di Renato Zero, i cui 21 euro potevano, a essere gentili, venir giustificabili dalla notevole durata, il disco del cantante italiano di successo (Eros, per citare l’attuale n.1) viene venduto inizialmente a 18 euro.
Orbene. Vent’anni fa ero garzoncello in un negozio di dischi, e le majors (la prima fu, mi pare, la BMG, rapidamente imitata dalle altre) si inventarono un aumento che fece molto discutere, chiamato sanitariamente “ticket”. Sull’LP appariva un bollino con la scritta TV, e un sovrapprezzo di 1.500 lire era giustificato col fatto che le suddette majors avevano reclamizzato quel disco in tv. Facendo pagare la cosa all’acquirente.
Che carini.
Sarebbe troppo tardi per chiedere che gli inventori di tale gherminella spazzassero i marciapiedi col sedere, però si può auspicare che i loro figli, quasi tutti impiegati nel settore paterno, paghino le colpe dei padri. Ma questo dettaglio è marginale. Ho raccontato questo per dire che l’aumento in questione portava i dischi a costare 12.000 lire.
A quel tempo, un videoregistratore della Panasonic costava 800mila lire, un computer Amiga 500 costava 500mila lire. Lo ricordo perché furono due dei miei oculati investimenti di garzoncello.
Oggi, prodotti che occupano lo stesso segmento di mercato ma molto più sofisticati, non costano il triplo.
Il cd, i cui costi di produzione fanno pressoché sorridere, e che oggi subisce la sfida del download gratuito, è pervicacemente mantenuto a un prezzo del tutto delirante, contando sul fatto che un fan è fanatico, e quindi pagherà comunque per il disco del miticoVasco. Poi gli incerti non lo prenderanno, ma chi se ne fotte: meglio farsi dare 18 euro da 300mila fans istupiditi, che metterlo a 14 euro e vendere 500mila copie tirando dentro i simpatizzanti non isterici.
Non è un fallimento del mercato, è avidità – quindi, forse, logica di mercato. Ma d’altronde, il prodotto musica pop non è necessariamente eterno: come l’opera lirica o il Subbuteo, potrebbe essere nato per occupare un periodo preciso della Storia, e poi cedere il passo. Anche perché non si è certo investito per renderlo più ricco e rinnovabile. La logica del mordiefuggi ha reso impossibile la fase di maturazione dell’artista (miticoVasco e capireBattiato, succitati, ne hanno fatti tanti di dischi, prima di trovare il grosso pubblico). Oggi una buona fetta di teenagers, clamorosamente, compra cd. Ma al loro interesse si risponde aggredendoli con cantanti usa e getta, il 90% dei quali nel giro di 3 anni si guadagnerà da vivere in altro modo.
Credo ci sia più di un sistema per rivitalizzare il mercato, e qualcuno lo sta attuando. Con sublime intelligenza, i discografici italiani insistono a chiedere leggi deliranti, vedi gli interventi degli addetti ai lavori su XL di maggio. Tra i tanti, segnalo quello di Massara, managing director Universal, che continua a rantolare che “gli esperimenti alla Radiohead sono stati dei giganteschi flop riconosciuti dagli stessi artisti”. Tra un po’ inizierà a dire che la Universal ha il 75% dei consensi degli italiani e che non ha avuto rapporti piccanti con Noemi.
E allora, tornando alla domanda iniziale: perché dovrei avere a cuore il futuro di codesti individui o codesto settore?
madeddu for president, madeddu for president, madeddu for president
#5
Stefano, per quanto riguarda il volume complessivo dell’industria discografica ho messo assieme una serie di elaborazioni statistiche di varie regioni mondiali. Il punto di riferimento principale è ovviamente il mercato discografico americano monitorato dalla RIAA:http://www.riaa.com/keystatistics.php
Il fatturato complessivo (fisico+digitale) era di 14,3 miliardi di dollari nel 2000 mentre nel 2008 vale solo 8,4 miliardi. Se consideri che in altri mercati mondiali il calo è anche più accentuato arriviamo all’approssimazione di un miliardo di dollari in meno l’anno che ho usato per dare una fotografia immediata.
#6
Paolo, non riesco a rispondere a tutte le due domande ma credo che i discografici (come gli allenatori di calcio) si trovino a maneggiare una materia che ci coinvolge in maniera tale che tendiamo sempre a criticarli due volte anzi che una.
Conoscendo un po’ di manager del settore non mi sembrano necessariamente peggiori (o più avidi) dei direttori di banca o dei dirigenti di giornali e TV, per dire.
Poi gli italiani magari non si distinguono per genialità ma io facevo un discorso più ampio che includesse tutti i paesi della UE.
il paradosso del liberista…
lo stato è colpevolmente interventista quando ascolta religiosamente ogni richiesta dei liberisti
questo accade perchè i cd liberisti tali non sono tali e perché le loro teorie non hanno alcun interesse al funzionamento sostenibile dei mercari, quanto piuttosto la rendita di posizione dei loro danti causa
detta come va detta, il liberismo (come il riformismo e come molto altro) è una formula vuota che serve a riempire le tasche di quelli che hanno abbastanza potere e denaro per investire nell’affermazione di una narrazione conveniente (per loro) senza altra preoccupazione
la libertà del più forte di disporre del ptrimonio comune sul solo presupposto che la sua forza ne indichi la supremazia
lo dimostra il fatto che quando, come dice jon, i governi erravano, lo facevano con il plauso e il consenso dei cd liberist e che sono proprio i gran liberisti di ieri a chedere oggi di socializzare le perdite provocate dalle loro belle pensate ed astuti “investimenti” a “sviluppare” non si sa cosa
è che alla fine non sono economisti e non sono scienziati, sono solo spacciatori di utopie pericolose
basti pensare all’approccio da credente che hanno nelle magiche virtù del mercato e la fiducia che ripongono negli operatori economici, per rendersi conto che si tratta di stupidi o di gente che vuole coltivare platee di stupidi per impoverirli pur di conservare i privilegi ai quali si credono intitolati in virtù del “successo” loro riconosciuto da quanti traggono vantaggio dalle loro esibizioni retoriche
avercene di questi tra le mani ci salterebbe fuori con poca difficoltà ed estrema naturalezza una sagra dell’umiliazione che almeno ripagherebbe moralmente, purtroppo c’è da dire che il coraggio non è una delle virtù delle vedette spettacolari
non per niente i discografici si sono rovinati a causa della loro avidità, sinceramente spero che i provider abbiano la forza di di non scucire un centesimo alle mayor, anche perchè la furbata di Sarko dura fino al primo ricorso alla corte costituzionale francese dal punto di vista formale, mentre sul piano pratico è già sconfitta e condannata all’inefficacia
devono capire semplicemente che il loro business non può generare profitti irrealistici, nemmeno se si agitano e sbraitano, loro e tanti altri che invece pensano sia possibile l’espansione geometrica degli utili
il liberismo è come la teoria delle sfere celesti di Platone: un meccanismo perfetto da ammirare a bocca aperta. Peccato che l’universo funzioni in tutt’altro modo.
@ PepPorno
Non mi pare che le altre ideologie/teorie di società abbiano dato quei gran frutti e sian tanto più realistiche; a proposito di “universo che funziona in tutt’ altro modo”.
Comunque, credo che neanche i più accesi avrebbero* ormai lontanamente l’ idea di metterlo in atto in maniera molto pura.
E’ che si può anche capire le “strade comunali”, i “pronto soccorso”, “le scuole dell’ obbligo” etc. ma ricordiamoci che si parte da un punto in cui la pressione fiscale sfiora il 44%.
Oltre ai vari sprechi, e consulenze dai prezzi ingiustificati, che debban esser “cosa pubblica”, oltre a Banche e compagnie aeree, anche cose come “X-factor/Isola dei Famosi”, l’ “opera”, ed adesso magari pure le “canzonette Pop registrate” (ma insomma ci si potrebbe sbizzarrire, ho citato esempi che sul momento mi parevan coloriti per quanto altro pesi molto di più), vien da ridere.
Poi vien fuori il Baricco di turno, che mette attenzione su certe cose, magari scrivendo bene, ma esprimendo concetti ormai banalissimi e anche contraddicendosi su alcuni punti, imho, e moltissimi (anche in area centro-sx), ad es. in rete, riprendono l’ articolo in modo molto positivo.
*con i numeri bulgari che fanno in Italia poi…
Mazzetta, Madeddu
l’avidità è un presupposto del mercato, della politica, dell’uomo. Purtroppo c’è ed in tutta la mia vita raramente ho visto un movente umano che non includesse almeno un 30% di avidità.
Se io grazie all’ADSL di Telecom Italia mi scarico tutto il catalogo della Sony non riesco ad esultare per la giusta castrazione dei profitti dei discografici in quanto sto semplicemente dando profitti ad un altro operatore, monopolista, pieno di manager incapaci ed avidi, odioso in egual misura.
Cmq un altro spunto interessante per il futuro della materia a livello di parlamento europeo ci viene dalla notizia del primo pirata di Svezia eletto in un’assemblea:
http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/politica/partito-pirati/1.html
Grazie.
A prima vista trovo pero’ tre “bachi”:
1) non credo che sia giusto guardare solo gli USA.
Nessuna delle major si limita al mercato americano, sono tutte globali .
Se l’obiettivo del monopolio temporale e’ la remunerazione dell’artista con annessi e connessi, e’ giusto spalmarlo sulla popolazione che ha accesso al bene e quindi se la popolazione si allarga, e’ giusto che i prezzi scendano. Non a casa total units e’ sempre in crescita mentre cala il total Value e i bilanci delle societa’ quotate non soffrono piu’ della media dell’economia
2) se prima ti costringevano a compare un LP con una canzone decente e 8 eccipienti, dato che il controllo era lato offerta, ora che il potere negoziale si e’ spostato lato domanda, sono costretti a vendere piu’ brani single; anche in questo caso aumentano il total units ma diminuisce il total value
3) non e’ giusto guardare solo la topline (i ricavi), bisognerebbe guardare i margini (l’EBITDA). infatti internet abilita’ due fattori che fanno risparmiare costi operativi: i) la delivery digitale, per cui non ci sono costi di produzione nè immobilizzazioni a magazzino e ii) la gestione online della filiera con relativo efficientamento, che porta anche nel caso del fisico ad una ottimizzazione dei processi. Le total units sono scese, i ricavi sono scesi ma come e’ andato l’EBITDA ? e rispetto ad altri settori ?
Per concludere, a mio modo di vedere, prima di dire “siamo in crisi”, sottointendendo “piu’ in crisi del pasticcere sotto casa che non ha alcun tipo di protezione”, bisognerebbe basarsi su metriche condivise e il piu’ possibile oggettive, che, secondo me, adesso non ci sono.
swadcascd
#14
Stefano, commento i tuoi punti
1) il mercato americano è cmq un punto di riferimento sia per volumi che per trend di consumo. Può darsi come hai già indicato che Universal quest’anno se la sia cavata così come anche Warner, ma a danno del totale collasso di EMI e della quasi sparizione delle indipendenti.
2) questa infatti è un’altra pressione del mercato spinta dalla tecnologia e dalla possiblità dell’umbundling. Non credo faccia salire la qualità dell’offerta, ma costringe le labels a cercare di continuo “one hit wonder” a danno della programmazione sull’artista.
3) i costi di produzione e distribuzione del fisico sono circa il 30% del valore finale. Da un lato questi costi vengno abbattuti (la produzione) ma il fatto di avere pochi distributori che ti tengono veramente per le palle (Apple, Amazon etc, gli unici a fare volumi sul web) non è detto che abbassino i costi di distribuzione perché il margine si trasferisce agli e-retailer. Il vero vantaggio sarebbe l’abbattimento dei costi di promozione dato il bocca-a-bocca su Internet, ma non è detto che funzioni sempre.
unbundling ovviamente si scrive con la n e non con la m
mi auto correggo
Per capire la perdita di valore delle case discografiche faccio notare che
Terra Firma, il fondo di private equity che ha comprato EMI ha già dovuto svalutare della metà il valore dell’investimento, dopo pochi mesi dall’acquisto
Bertelsmann ha fatto di tutto per sbolognare il suo 50% della Sonybmg alla Sony.
Warner Music dal 2004 ad oggi ha avuto solo 1 anno in utile e gli altri in perdita.
In termini di EBITDA o Utile Netto le labels non sembrano un affare oggi, qualcosa vuol pur dire.
@Kluz no, io mi riferivo proprio al liberismo che funziona in modo diverso da come ce lo rappresentano, non ad altre e imho più illuminate teorie. Se il liberismo fosse davvero quello descritto e proposto da Adam Smith non sarebbe neanche malaccio, ma non lo è, somiglia piuttosto alla Sparta antica (oligarchie, privilegiati, iloti ecc.).
Sul concetto di cosa deve essere ritenuto di interesse pubblico e cosa no, bè, molto dipende dall’idea che si ha di progresso individuale e sociale. Io credo che la cultura, nel senso più ampio possibile canzonette comprese, sia di interesse pubblico, e che chi la produce abbia il diritto di trarne profitto, per qualche anno, dopo di che l’interesse pubblico deve prevalere e il prodotto culturale diventare pubblico dominio. E’ sempre stato così nei millenni, ed ha funzionato alla grande, pensa se cifossestatoil copyright sull’alfabeto e sui numeri e le operazioni aritmetiche…
Poi, tra chi produce cultura e chi ne usufruisce devono esserci meno intermediari possibile, Stato compreso, che deve limitarsi a creare le condizioni favorevoli allo scambio. Quindi, Jonkind, se per un po’ è stato necessario ricorrere ad intermediari (le case discografiche) per poter ascoltare le canzoni, ora che la tecnologia ci consente di farne a meno, perché dovremmo continuare a mantenere l’inutile carrozzone dell’industria discografica?
Se ci sono dei lavoratori in difficoltà li si sostenga con gli ammortizzatori sociali, come si dovrebbe fare con tutti gli altri, fino a che non trovano un altro impiego.
L’utile netto non e’ molto indicativo, ci sono i writeoff per attivita’ non sostenibili.
che qualcuno stia male, che qualche geografia non funzioni, che qualche operatore sparisca, che la natura del servizio/prodotto cambi, fa parte della storia. Nulla e’ immutabile.
un domani, quando i film saranno interattivi e di sintesi, e saranno fruiti con riproduttori con CPU, disco e tanta RAM (leggi, console e non VCR), ci lamenteremo perche’ Hollywood non si sostiene piu’, o saremo contenti perche’ gli MMORPG ad abbonamento sono fiorenti ?
in I.NET, tra il 2000 ed il 2002, la nostra materia prima, quella su cui poggiava il nostro margine (l’IP Transit) è calato di piu’ del 90%. Nel 2000 un 2Mbps si vendeva a 400M di lire; nel 2002 a 2000 Euro.
Fatti i conti sul calo…
Oggi a 200. E’ stato bene o male per il mercato ?
Se pur avessimo potuto mantenere in % del prezzo, la contribuzione assoluta si e’ centesimata. Abbiamo dovuto reinventarci passando da ISP (connettività) a società di servizi ICT (housing e security); il personale era 60% commerciale, e’ diventato 75% tecnico. Siamo passati da 40M del 2001 a 84 del 2008 con 5M di EBIT (cifre a mente). Sempre servizi ICT, ma spostandosi di corsa su qualcosa di sostenibile… opporsi all’evoluzione della tecnologia e’ futile.
faccio sempre una semplice domanda, cui non trovo risposta: il margine per l’industria dell’intrattenimento a livello globale cresce o cala ? e se cala, cala piu’ o meno dell’economia ?
Il caso di I.net che proponi è un esempio di crollo dei prezzi dovuto ad iper-investimento nella fase di boom della new economy e di eccesso di offerta rispetto alla domanda. Il prezzo è crollato ma in linea con i fattori di mercato.
Per la musica digitale e la pirateria è un po’ diverso. Per fare un paragone è come se voi aveste venduto connettività ad un prezzo ma l’utente avrebbe potuto avere lo stesso servizio gratis da un’altra parte (il problema si porrà semmai con l’arrivo del wi-fi). In quel caso I.net avrebbe chiesto forse una regolamentazione diversa ed una protezione ulteriore. Non si tratta di evoluzione tecnologica ma di legame tra prezzo e domanda del consumatore. Il crollo dei prezzi del Mbps è stato un aggiustamento del mercato all’eccesso di offerta ma è rimasto nei vincoli di un sistema regolato.
Pessima analisi. Davvero. Superficiale nell’elencazioni di dati non supportati da fonti. Di parte. Dobbiamo provare pietà per questi poveri artisti sottopagati? Riteniamo che una Giusi Ferreri qualsiasi (senza enrtare in valutazioni qualitative) sia piu’ povera oggi di quanto lo fosse quando faceva la cassiera di un supermercato? E la casa discografica che la supporta? Quello che disturba le case discografiche, relativamente al libero accesso di materiali in rete, non è solo il mancato guadagno, è l’impossibilità di “pilotare” le scelte dei consumatori, cosa che di fatto disintermedia e rende superflua una struttura di promozione e distribuzione. Se il problema fosse solo economico, le Major avrebbero spinto da tempo per ottenere una “gabella”, proporzionale al canone adsl, e recuperata dagli utenti (a fronte ovviamente di un loro diritto di fruire del materiale per uso non di lucro) da ripartire sugli artisti. Ma questa strada porta nel medio termine a nuovi modelli di business in cui prodittori e distributori diventano INUTILI. Cosi’ via a spingere sulle soluzioni like “Hadopi” (Hanopi nell’articolo?), che oltre alle discutibili implicazioni costituzionali e di privacy si riveleranno inutili perchè, stante le problematiche tecniche e i mille modi di aggirare i controlli, penalizzeranno qualche sfigato lasciando delle voragini aperte per la massa.
Ma tanto ci sarà sempre qualche articolista superficiale che darà manforte a queste sanguisughe con articoli come questo.
@Byrokarma
perché dici che non è supportato da fonti? Ho già citato nei comment i dati della RIAA, l’associazione discografica americana.
Si può non essere d’accordo con la tesi finale ma che l’industria discografica vada a rotoli è un fatto del mercato.
Anche io credo che la Legge Hadopi (grazie per la segnalazione refuso) non vada da nessuna parte.
Tuttavia c’è un problema collettivo da affrontare, secondo me, e non si può liquidare il tutto infilzando i discografici nelle picche.
@Jonkind
Scusa se sono stato un po’ tranchant, ma tra tutte le fonti non puoi usare i dati della RIAA. Usa dei dati di bilancio, fai una analisi seria, azienda per azienda, dei loro costi, del fatturato, deegli investimenti (magari in inutile promozione di artisti decotti) e poi se ne parla. Con l’aria che tira di aziende in difficoltà ce ne sono tante, e sono case automoblistiche, banche, az. manifatturiere, che di sicuro non risentono del P2P.
E se vuoi essere obiettivo, ricordati di parlare dello scandalo di questi giorni dell’IMAIE, dei bollini SIAE, della gabella sui supporti, dell’idiozia dei DRM….
Poi, a me personalmente i discografici fanno un baffo. Aiutiamo gli artisti, i musicisti, gli autori. Chiediamo un piccolo canone aggiuntivo sull’ADSL da distribuire a questi soggetti, in modo che possano continuare a fare decorosamente il loro lavoro. Senza pero’ renderli plurimilionari (alla fine, girala come vuoi, ma non sono scienziati della NASA, scrivono quasi tutti canzonette).
Cordialmente
A tale “piccolo canone” aggiuntivo su la ADSL, ne andrebbe aggiunto uno anche per la pornografia, e, se ci penso, forse altre 3-4 “industrie”?
Onestamente di infilzare nelle picche i discografici non mi interessa. Semplicemente non vedo a quale problema per la collettività si potrebbe mai incorrere nel non combattere il p2p e similari. Anzi, di sicuro si risparmierebbero risorse statali (che siano forze dell’ ordine o altro).
@Jonkind: No, il caso di I.NET e’ dovuto all’evoluzione della tecnologia. In particolare alla nascita del DSL che ha permesso di passare dagli accessi sporadici all’always on, cosa che prima si faceva solo con i “circuiti diretti numerici” e di centuplicare nel giro di pochi anni la disponibilita’ della risorsa, di fatto svalutandola. Questo ha spostato il mercato dati da sostanzialmente B2B a B2C. L’andamento dell’IP transit all’ingrosso rifletteva uno spalancamento di un mercato a valle, abilitato a suoa volta dalla evoluzione delle tecnologie ottiche (da 655Mbps a varie decine di Gbps per strand).
Poi, non ho detto che fosse la stessa cosa, ma esemplificavo che nella vita di una azienda le discontinuita’ che impongono un ripensamento ground-up esistono e ne ho citata una che ho vissuto direttamente (solo i miei colleghi hanno un’dea delle notti, sabati e domeniche passate in ufficio).
Se hai il beneficio che la tua risorsa e’ un monopolio assicurato dalla regolamentazione, il primo pensiero e’ chiedere un intervento alla regolamentazione.
Ma io sono convinto che le opportunita’ nell’industria dell’intrattenimento esistono, ritorno alla domanda..
il margine per l’industria dell’intrattenimento a livello globale cresce o cala ? e se cala, cala piu’ o meno dell’economia ?
@Byrokarma: mettiamo anche una levy per le agenzie di viaggio, per le poste, per i fotografi, per i giornali, per i librai, ecc ? Questo, nel mondo dell’always on con tecnologia diffusa, con i computer nelle penne, e’ il massimo che riusciamo a immaginare ? Sono 3,5 anni che ci stiamo lavorando su con dmin.it e credo che abbiamo un framework solido.
@Stefano Quintarelli
Non conoscevo quanto proposto da dmin.it (nel settembre 2006); eppure seguo abbastanza queste tematiche. Forse è una prooposta che è stata diffusa tra addetti ai lavori. Approfondiro’, ma se dopo tre anni ….. (?)
@Kluz; @Stefano Quintarelli
Non so se l’idea del piccolo “canone aggiuntivo” sia quanto di meglio uno si possa inventare, ma nel caso servirebbe a riconoscere una somma ai detentori dei diritti (quindi anche su film porno o fotografie). Che c’entrano i librai o le agenzie di viaggio?
Certo, si puo’ contestare l’estrema difficoltà nel ripartire in modo equo questa gabella sui destinatari; se pero’ sapete come vengono oggi ripartiti i diritti SIAE, vi rendete conto che peggio di cosi’ è difficile…
@ByroKarma: la mia era una piccola provocazione.
sono alcune aziende “ammaccate” dalla digitalizzazione.
le proposte di dmin.it sono pubbliche e certamente note alle associazioni di categoria, autorita’ di regolamentazione e comitati vari.
si, e in tre anni non c’e’ ancora tutto il software necessario.
per confronto, Mpeg e’ iniziato nel 1988, la prima proposta di standard e’ stata partorita 3 anni dopo (1991) e la prima implementazione e’ avvenuta nel 1992. (e non se la e’ filata praticamente nessuno).
e considera che erano tempi “espansivi”, veniva visto come business development.
L’atteggiamento non era, come oggi, quello che vedi se ti avvicini ad un gattino che rode un osso…
Per adesso vengono inseguite proposte “mono-direzionali” spinte da questo o quello, ma senza un confronto sincero e costruttivo tra tutti gli stakeholder. Sono le prime idee e piu’ semplici, ma non di sistema. E quindi, IMHO, non funzioneranno ma finche’ le persone che le propongono non se ne convincono (e temo che occorrera’ la prova sperimentale), temo non si faranno grandi passi avanti.
Ergo, avremo una “hadopi”, seppur all’italiana, avremo una levy (l’abbiamo gia’, per la verita’), ecc.
tra 2 anni non saremo soddisfatti degli esiti (e nel frattempo qualcuno sara’ andato avanti con dmin.it) e riconsidereremo la cosa.
@Stefano
ovviamente rispondere alla tua domanda non è facile così, sul posto. Ci vorrebbe un lavoro molto articolato con capacità di visione a medio-lungo periodo che forse non abbiamo ancora.
Resto convinto che per le specificità del prodotto musica, la tecnologia ed il mutato atteggiamento dei consumatori stiano creando un vulnus del mercato sotto il punto di vista della scienza economica.
Volevo anche sottolineare che in genere tra i soggetti criticati sul mercato ci dimentichiamo dello Stato che in genere incamera cmq molto denaro che spende male ed a volte sarebbe il caso che fosse più efficiente, con criteri oggettivi. L’Europa sostiene i coltivatori di frumento, i produttori di latte, i pescatori etc etc ma nella società moderna dei servizi esistono altri settori che non necessariamente debbono cavarsela sempre soli (o almeno, che l’anarco-liberismo valga per tutti)
Il mio post voleva solo scatenare un dibattito tra persone competenti e mi sembra che ci siamo.
Per curiosità ho verificato la caduta dei valori azionari (dal 2005 ad oggi) di 3 società che dal mio punto di vista sono abbastanza omogenee da essere prese come punto di riferimento di certi trend settoriali. I valori di borsa hanno il pregio di incorporare bilanci passati (incluso EBITDA e Margine Operativo) ed aspettative future, sintetizzando in maniera approssimativa ma semplificata il valore percepito delle aziende. Te li butto lì senza avere la pretesa di essere esaustivo ma come trampolino per approfondimenti futuri:
Dal 2004 ad oggi:
Warner Music (Musica): -50%
Swisscom (Telco con alta prevalenza ISP): -20%
Walt Disney (Entertainment): 0%
Non so se qualcun altro nei commenti ha avuto modo di sottolineare già questo punto, but anyway…
Ti dimentichi di prendere in considerazione la dinamica di formazione dei prezzi di mercato.
Dal punto di vista della teoria economica, il prezzo di un bene in un mercato concorrenziale è uguale al suo costo marginale variabile. Per quanto riguarda la musica, il costo di produzione (pagare i musicisti, i fonici, la sala di registrazione, etc.) in sè è “sunk” – come dire, “a fondo perduto” – nel senso che è uguale (e deve essere pagato comunque) sia che si vendano tre copie sia che se ne vendano tre milioni. Il vero costo marginale variabile per la musica è dato dalla stampa su supporto (cd, vinile, etc.) e dalla distribuzione. Nel mercato della musica online quindi, come chiunque può ben intuire, questi costi tendono a zero. Per questo motivo il prezzo di equilibrio nel mercato della musica è attualmente… ZERO!
Niente fallimento di mercato (ANZI!), niente intervento dello Stato.
@Panettore
dimentichi il costo di promozione e posizionamento sul mercato.
Inoltre gli artisti vogliono percentuali ed anticipi garantiti. Se vendi 3 dischi sei fallito, se ne vendi 3 milioni no.
Non è vero che il costo di distribuzione è zero. I retailer elettronici (apple, amazon) si fanno pagare ed anzi sempre più faranno valere la loro posizione dominante.
Se poi pensiamo che il futuro siano 3 milioni di canzoni su 3 milioni di spazi MySpace allora OK. Tutte operazioni alla Coldplay, Ok. Ma non credo sarà così.
Com’era prevedibile:
Il Consiglio Costituzionale Francese ha respinto la Legge Hadopi perché limita la libertà ed i diritti del cittadino senza coinvolgere il potere giudiziario.
http://www.corriere.it/esteri/09_giugno_10/legge_francese_pirateria_internet_4d596a38-55e0-11de-8b38-00144f02aabc.shtml
Respinta la linea dura
A prescindere dai diritti sanciti dalle costituzioni, i dubbi non potesse manco esser sostenibile economicamente come strategia permangono.
Figurarsi poi quando non si capisce quale possa essere mai lo “spauracchio”.
BTW relativamente fresco:
guardian.co.uk/news/datablog/2009/jun/09/games-dvd-music-downloads-piracy
(benché non incarni la mia linea, per dimostrare il perchè il fenomeno non vada contrastato).
ci stiamo avvicinando..
;-)
il nasdaq composite, nello stesso periodo, ha perso spannometricamente il 30%
guarda qui http://is.gd/Z5Qd
Sono d’accordo con il Guardian che su 100 canzoni scaricate illegalmente senza pirateria non avremmo certo 100 canzoni acquistate di più legalmente. Diciamo 20.
Il problema è che il differenziale tra prodotto legale di qualità e tarocco piratato è molto basso nella musica mentre sicuramente più elevato per i DVD con film o per i giochi. Per i film poi forse Internet da più chance di marketing che perdite nelle vendite perché è un teaser molto efficace. Se anche mi scarico il film nuovo registrato in presa diretta al cinema e poi messo su emule e quel film mi piace sono disposto a pagarlo per avere la copia ad alta qualità sullo scaffale.
Quindi la musica perde fatturato per colpa dei pirati ma quel fatturato è probabilmente minore da quanto reclamato dalle labels, questo ve lo concedo.
Se io avessi 50 sterline ne userei 30 per comprare un videogame, 20 per un paio di DVD e zero per la musica dato che mi scaricherei tutto su emule (anche le due tracce belle, non solo le otto brutte)
Come ho detto, pur sbagliando punteggiatura, essa non corrisponde alla “mia linea” sull’ argomento.
Ad es. non vedo che problema ci sia se “la musica perde fatturato” (che poi musica andrebbe virgolettato 3 volte)
@Stefano Quintarelli
ti dovevo una fonte sul 95% di musica scaricata illegalmente.
E’ una cifra che gira all’interno della industry e chi mi è capitato di leggere e sentire diverse volte. Non escludo che sia sovrastimata dagli addetti ai lavori per rafforzare la loro attività di lobby ma non credo nemmeno che sia troppo più bassa di così.
In ogni caso ti linko un altro richiamo a questa percentuale, di qualche giorno fa:
http://www.newser.com/story/48348/95-of-music-downloads-illegal-industry.html