Si diceva in sala prof che, certo, sciopereremo, ma che senza blocco degli scrutini non ci si filerà mai nessuno, e che i colpevolissimi sindacati possono aggiungerlo al già gravoso carico che portano sulla coscienza, l’avere disattivato l’unica nostra arma dotata di efficacia. In realtà, poi, sullo strumento del blocco degli scrutini la confusione regna sovrana: è illegale o no? Io, con molti altri, pensavo di sì, ma questo link della Gilda ci smentisce. (Ecco, una cosa buona di questo governo è che mi sta finalmente facendo studiare cose a cui, prima, manco pensavo.)
Scioperare si deve e lo farò, ovviamente, ma sarebbe opportuno uscire dalla logica autolesionistica che ci contraddistingue e che ci rende la categoria più innocua d’Italia – e quindi la più sbeffeggiabile, in questo paese che ama i furbi e gli arroganti. Tre sacrosanti giorni di sciopero a Ottobre vogliono dire circa 200 euro in meno in busta paga (madonna santissima) nonché le consuete corse successive per recuperare voti, programma e quant’altro. Benissimo: ma il senso dello sciopero è creare disagi fuori, e non solo a se stessi. Io, quindi, colma di ammirazione per le maestre delle elementari (che ho visto in azione la settimana scorsa durante un’assemblea e mi sono spellata le mani ad applaudirle, ché di donne fiere ed agguerrite così non mi pare di averne mai viste, da noi alle superiori) faccio mia anche l’idea dello sciopero bianco e col cavolo, che quest’anno muovo un dito al di fuori di quello che è strettamente il mio dovere.
E poi credo che dovremmo davvero tralasciare la nostra consueta, istintiva gentilezza verso il sistema tutto e che abbiamo l’obbligo di mostrare agli italiani quanto è improvvisata, vuota e sciocca la politica Brunettiana. I due soldi che lo Stato, nella sua nuova versione buzzurra, mi toglie quando mi ammalo, li deve spendere con gli interessi obbedendo a Brunetta, guarda, e senza che io gli faccia sconti. VOGLIO il medico a domicilio pure se sto a letto per dolori mestruali, visto che non posso uscire. VOGLIO la visita fiscale dal primo giorno di malattia, e voglio che l’ASL mi spieghi perché non me la manda, se non me la manda. Scriverò lettere ai giornali per protestare per ogni mancato arrivo di chi dovrebbe controllare che io non esca, quando mi ammalo. Voglio che i servizi sociali mi facciano la spesa – visto che non posso morire d’inedia mentre sono agli arresti domiciliari 11 ore al giorno – e voglio che il 118 mi procuri le medicine che non posso andarmi a comprare per decreto, e che l’Amministrazione mi chieda per iscritto di stare a casa se sono contagiosa.
E credo che quest’opinione pubblica tanto pronta ad applaudire riforme orecchiate e fatte apposta per titillarle la pancia dovrebbe cominciare a capire un po’ più da vicino di cosa stiamo parlando. Genitori che non vedi MAI a scuola, sindacalisti dei propri figli esperti di didattica come di pallone, ragazzotti che ci riportano nelle classi il bullismo di un Brunetta senza vedere che il vero spreco di denaro pubblico, nella scuola, sta nello scaldare il banco dei deficienti che l’anno scorso ci deliziavano con le loro prodezze messe su YouTube, e che quando gli dici: “Ma lo sai che tu sei qui finanziato da denaro pubblico investito per farti studiare?” ti rispondono che loro pagano la tasse e che quindi gli spetta, il diritto di dormire sul banco Be’, io sarei stufa del maternage a oltranza della mia categoria verso una società che risponde a sputi in faccia. Forse dovremmo concentrarci un po’ di più sul nostro mestiere, sapete? Fare meno gli assistenti sociali e più i prof. Affrontare un po’ di nodi che non ci piace affrontare, perché portano ad ammettere che la scuola – che ci piaccia o no, ché la realtà se ne frega, dei nostri desideri – è di classe, oggi più di prima, e che fingere che non sia così non ha più senso. Non in quest’epoca, non con l’analfabetismo teleindotto che è penetrato soprattutto nei settori più svantaggiati di questo paese.
Quando ne parliamo, di certe realtà scolastiche e del fatto che forse bisogna proprio diminuirglielo, il numero di materie, a chi ci studia dentro? Mi sa che non riusciamo a parlarne perché sappiamo che, con buona pace della Gelmini, non sono le materie tecniche ad essere di troppo, in quelle scuole, ma l’italiano, la matematica, la storia e le lingue straniere. Perché le conclusioni a cui arriveremmo, se ne parlassimo, non ci piacciono per niente, davvero. Solo che inganniamo l’Italia, i genitori, noi stessi e pure gli studenti, andando avanti così. A fare finta di insegnare a gente che manco finge più di imparare. Oh, lo facciamo a fin di bene, ne sono certa. Ma non funziona.
Io credo che dobbiamo affrontarlo e denunciarlo noi, lo sfacelo sociale e culturale a cui assistiamo in tante delle nostre scuole (penso ai professionali ai confini della realtà di cui ho notizia, penso a certe realtà di periferia o del sud, penso al senso di impunità in cui crescono i bulletti di oggi che saranno i bulli di domani). Perché la realtà ci dice che non abbiamo la forza di risolvere una beata mazza e che, anzi, con i nostri silenzi da formichine non riusciamo che a essere complici dello sfascio e che, nel momento in cui i nodi cominciano ad arrivare al pettine, ne siamo e ne saremo capri espiatori.
Toccare la scuola vuol dire toccare i nodi, la carne viva della società. E’ normale che, piuttosto che vedere il degrado per ciò che è, si preferisca attaccare noi. Però è la normalità dei nevrotici o degli idioti, nulla di più.
Io credo che dovrei ridefinire il senso del mio lavoro. Dentro di me, dico. Lo penso, ma poi non riesco a sciogliere la contraddizione che c’è tra il mio desiderio, che ormai aumenta ogni giorno di più, di fare solo e soltanto il mio mestiere (insegnare la mia materia e poi valutare i risultati degli studenti, su programmi e sistemi di valutazione che rispettino degli standard nazionali, e stop) e i nodi dell’educazione e dell’integrazione, e di come perseguirle. Qui, adesso, in Italia, nel degrado.
Non mi vergogno ad ammettere che mi sento professionalmente smarrita, confusa, piena di dubbi. L’unica cosa che so con assoluta certezza è che, mentre cerco il bandolo della matassa di ciò che è il futuro del mio mestiere, ho un solo modo per non perdermi e per non soccombere ai colpi che arrivano da tutte le parti, a cominciare dal Governo. E consiste nell’essere più statale dello Stato. E non è una parolaccia, “statale”. E’ qualcosa di cui io sono orgogliosa. Fino a quando non inventeremo un sistema migliore per dare pari opportunità ai cittadini – e fino ad ora non lo abbiamo inventato, mi pare – continuerò a ritenere che lavorare per lo Stato sia un onore e una responsabilità, a prescindere dai singoli figuri a cui può capitare di governare.
Non so come se ne esce, da ‘sta storia. So che comunque, e per prima cosa, qua tocca vivere con la Costituzione tra i denti. Quello che caspita dobbiamo fare deve essere scritto lì, da qualche parte.
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