Ho sognato che ero a Ciudad de la Iglesia de Nuestra Señora de Los Angeles sobra la Porziuncola de Asìs, per gli amici L.A.
Nel sogno mi avevano dato una carta verde e io venivo a vivere lì per sempre. Già dal finestrino dell’aereo vedevo il tuo SUV parcheggiato sotto la scritta LAX e tu mi facevi ciao ciao con una mano come con l’altra mandavi un sms a mia mamma per dirle che ero arrivata. Ti eri fatta le unghie turchesi da quelle sciùre cinesi di fianco a Nick’s. La carta verde me la sono sognata proprio verde, era come la carta fedeltà dell’Esselunga però senza la fragola. Sopra c’era scritto Fidaty e più sotto, in piccolo, In God we Trust.
Il sogno era molto realistico. Scendevo dal Jumbo Dumbo e mi infilavo in quel tubo che sembra una proboscide e ti porta dritto nella pancia del Tom Bradley. Ero in coda con i cinquecento coreani della volta scorsa e c’erano anche quei due, lui e lei, tutti e due di Cologna Veneta, esattamente come quando io stavo col mio vicino di casa perché i confini della mia esistenza avevano un raggio di 8 chilometri e tanto valeva mettersi col primo che capita. Che mi ero detta guarda un po’ se devo fare mezzo giro del mondo per mettermi in coda con due di Cologna Veneta.
E insomma fischiettavo quella canzoncina della piuma di Dumbo, quella che fa ne ho viste tante da raccontar, giammai gli elefanti volar e intanto mi si avvicina un latino in divisa da domatore, vestito proprio come se fossimo al circo invece che alla dogana e mi chiede patente e libretto. Io gli dico che il libretto è nel portaoggetti della Fiesta di mia mamma e la patente l’ho data a mio fratello perché andasse a ritirarmi il Motorola al centro assistenza in via Imbriani 26, oppure Imbonati 62. Devo avere una leggera dislessia, perché tendo a invertire le cause con le conseguenze.
Allora il latino mi mette le manette di pelo rosa e mi infila nella macchina bianca e nera dello sheriffo. Mi tiene una mano sulla testa e mi spinge dentro, dice occhio alla testa. Dentro è come tutto molto liquido, quasi amniotico, sembra un utero. Siamo io e un tizio che sulle prime mi sembra Andy Garcia, invece dev’essere mio padre perché improvvisamente ha i baffi a scopettone, la pipa in bocca e mi chiede la tabellina del nove. Allora io comincio nove per uno nove, nove per due diciotto, nove per tre ventisette per non deluderlo. Mi guarda con gli occhi di chi vuole sapere in tutto questo tempo dove sei stata cosa hai fatto mai.
Poi il panorama è cambiato improvvisamente. Ero di nuovo sull’aereo che stavo tornando a casa. Mi giravano parecchio perché la hostess della Lufthansa mi aveva rovesciato addosso il succo d’arancia e io urlavo datemi un Tavor perché mi era venuto un attacco d’ansia. Tu eri seduto al mio fianco e mi sgridavi perché faccio sempre questo stupido giochino di parole tra là e L.A. Io allora ti dicevo che tra noi era finita per sempre e per farti incazzare facevo finta di mandare i sms a quell’altro, invece scrivevo a mia mamma di farmi il brodo di pollo che stavo tornando.
Meravigliosa, come spesso.
Ma chi te lo fa fare di tornare in Italia? Resta qui in America… vuoi mettere quell’odore inconfondibile di United States che non sentirai più nel Belpaese?
Dov’è che l’ho già letto? :)
Non saprei, forse mi oblivion…