Anch’io la canzone triste, anch’io, anch’io!

Non posso essere da meno, no.
Luca Sofri, Suzukimaruti, Massimo Mantellini, Giulia Blasi e Achille Corea – per nominare i più noti, ma chissà quanti altri – hanno scritto della canzone più triste, buia e deprimente che conoscono.
Per Luca è un ballottaggio tra Ritornerai di Bruno Lauzi e Fiori rosa fiori di pesco di Lucio Battisti (ma oggi si è parzialmente ricreduto).
Suzuk sceglie Confesso di Piero Ciampi; Giulia va per Exit Music (for a film) dei Radiohead, Mantellini si strugge per Giampiero Alloisio e Achille singhiozza con Ed io tra di voi, di Aznavour (ritenuta un po’ eccessiva anche ai tempi, e rimasta perciò memorabile soprattutto in questa versione).

Per quanto mi riguarda, non ho ancora trovato una canzone che testimoni la tragica insensatezza della condizione umana come Fin che la barca va, di Panzeri-Pilat-Arrigoni.

Si tratta di un testo magistrale, rimasto insuperato per la precisione con cui ritrae la summa dei contenuti legati alle escatologie, ai drammi, alle aspirazioni di questi strani animali e dei loro rapporti con il Demiurgo che li punisce, e che solo un osservatore superficiale potrebbe identificare fuori dalle evidenti allegorie di “grillo” e “formica”.

In Fin che la barca va c’è davvero tutto: l’angoscia esistenziale di marca schopenhaueriana (“La vita come pendolo tra dolore e noia”) e l’eracliteo scorrere del tempo nelle sue stagioni (pare che nel 1970 ci fossero anche le “mezze”);

Il grillo disse un giorno alla formica: “il pane per l’inverno tu ce l’hai,
perché protesti sempre per il vino? Aspetta la vendemmia e ce l’avrai”.

Il vino, ovviamente come sfida al Di-vino, il rapporto conflittuale col Sacro, e i due massimi miti, in tal senso, dell’era precristiana: Prometeo, trafitto al fegato dall’aquila (tipico volatile peruviano) che se ne ciba e, naturalmente, la Torre di Babele come archetipo di ogni hybris possibile.

Mi sembra di vedere mio fratello che aveva un grattacielo nel Perù,
voleva arrivare fino in cielo e il grattacielo adesso non l’ha più.

Da Fin che la barca va non resta fuori niente: il ritornello adombra infatti una suggestione tipicamente orientale, il famoso richiamo karmico che potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) riscattare il travaglio ontologico dell’essere umano:

Fin che la barca va, lasciala andare, fin che la barca va, tu non remare,
fin che la barca va, stai a guardare, quando l’amore viene il campanello suonerà.

Nessuna traccia di costruzione sistematica, hegelismo, o filosofia positiva. C’è invece Kierkegaard, con la sua Malattia Mortale connessa alla condanna della Scelta, una Scelta naturalmente – direi anzi costituzionalmente – fallace e perciò motivo di ulteriore dannazione:

Mi sembra di vedere mia sorella che aveva un fidanzato di Cantù,
voleva averne uno anche in Cina e il fidanzato adesso non l’ha più!

 

E a un certo punto, ecco apparire la fosca figurazione della contingenza, la doxa, la chiacchiera heideggeriana, il logos improprio e traditore, l’Erlebnis zoppa che l’apparenza rende invitante poiché disciolta nella fumigante nebbia dei sensi: la tentazione della carnalità e l’abbandono di qualsivoglia abnegazione a una qualsivoglia dottrina di fede; laddove il cancello citato, qui, non è certo faccenda troppo celeste:

Stasera mi e’ suonato il campanello: e’ strano, io l’amore ce l’ho gia’,
vorrei aprire in fretta il mio cancello, mi fa morire la curiosita’.

E, immediato, l’assordante intervento vessatorio del Divino, che coglie l’Infinitamente Piccolo in tutto lo smarrimento in cui l’avvolge il Molteplice e lo rimette a posto nella sua sozzura ontica, assestandogli la cosiddetta Randellata Gnostica per mezzo della quale l’assordato imparerà a razzolar meglio:

Ma il grillo disse un giorno alla formica “il pane per l’inverno tu ce l’hai”
vorrei aprire in fretta il mio cancello, ma quel cancello io non l’apro mai.


Altro che Grind, Death Metal e messaggi rovesciati, signori miei.

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18 Commenti

  1. pensa te che io deprimo quando metto su ( ) dei sigur ros che si divide tra strumentali e testi in una lingua inventata.

    Comunque, l’analisi è eccellente e mi porta ad osservare il pezzo della Berti da nuovi ed inesplorati punti di vista. Probabilmente non ero in grado di riconoscere la potenza emotiva di questo pezzo.

    “vorrei aprire in fretta il mio cancello, ma quel cancello io non l’apro mai.”

    disperazione, alienazione, solitudine disperata…

    mi sto sciogliendo in un mare di lacrime

  2. non sono d’accordo. Secondo me il ritornello mostra una tendenza alla filosofia zen, facendo notare l’inutilità di una qualunque operazione volontaria per modificare il destino, e la protagonista alla fine abbraccia tale modo di pensare. Direi che si può parlare di atarassia, di nirvana, ma non proprio di tristezza.

  3. nonò secondo me più che imperturbabilità è abbandono rassegnato. Sa che non ha possibilità di scelta, d’altronde nel proseguio dice testualmente che la sorella ha perso tutto in seguito al tentativo di perseguire un desiderio.

  4. Cioè intendi quello che la filosofia occidentale chiama determinismo? Perché il determinismo, più che essere l’anticamera del nirvana, lo è della depressione.

  5. la canzone tutta, in ogni singola parola trasuda determinismo, dov’è il libero arbitrio?
    Il grillo dice alla formica chiaramente: “fatti i cazzi tuoi che fai la fine di mio fratello spiantato in perù senza manco il palazzo (sarà stato un amico del palazzinaro Coppola)

    infatti è l’anticamera della depressione, ragazzi: è il manifesto della rassegnazione al “desctino basctardo porco” teorizzato da Ravanelli

  6. Ragionare su canzoni tristi loro malgrado è divertente, ma forse è giusto occuparsi di chi la tristezza la cercava con determinazione, come Ciampi, il primo Vecchioni e soprattutto Claudio Lolli. Per non parlare di “Bene” di De Gregori Vol. II.
    In America Neil Young con “The needle and the damage done” e tutto l’album “Tonight’s the night”, Joni Mitchell con “Last Time I saw Richard”.
    La mia preferita è “Round Here” di Counting Crows.

  7. Al momento ho poca memoria e poi confondo tristezza con malinconia, più situazioni varie. Cose diverse dal patetismo. Però ho letto il commento sopra e mi sono ricordata che su questa ci ho un po’ pianto su per enne motivi. Insomma, uno struggimento:
    http://it.youtube.com/watch?v=V6YYbitkugQ

  8. a)Canzone struggente: “Ancora” (E. De Crescenzo)
    b)Canzone triste + senso di colpa da primo tipo di attaccamento Bowlby: “Profumi e balocchi” (si conclude con suicidio del ‘creaturo’ che si candida come comparsa In Incompreso)
    c) Canzone triste francese: “Ne me quitte pas” (se la gioca con Aznavour in toto che vale anche per la voce Armenia/Italia)
    d) Canzone triste italiana vintage: “Settembre” (P.Gagliardi)
    e) Canzone triste contemporanea: la canzone sull’amico ricchione della Tatangelo (non ricordo il titolo)
    f) Canzone triste sempiterna: Inno della Turchia
    g) Canzone triste futura: eventuali dediche di Jovanotti al portinaio dello stabile
    h) Ballo del qua qua versione remix

    LE MIE:
    1) (Fado in genere, ma Mariza, ah, Mariza…) http://it.youtube.com/watch?v=BdHbQBvgyQ0

    2) (“Passione”)
    http://it.youtube.com/watch?v=Qnh8SWJI7-o&feature=related

    3) (no comment che partono…:)
    http://it.youtube.com/watch?v=ixFJTruqBuU&feature=related

  9. Io scelgo “For Whom The Bell Tolls” dei Bee Gees e “This Woman’s Work” di Kate Bush.

  10. Il determinismo è l’anticamera della depressione per noi occidentali solo perché non lo vogliamo accogliere appieno. Nota che non sto parlando dell’Insh’allah arabo, che è una cosa completamente diversa (un abbandono fiducioso all’Inconoscibile). Ribadisco: per me l’Orietta cercava una sintesi tra tagliatelle e bambù.

  11. Mélancolie di Yves Duteil e Summer Moved On degli A-ha. Ma lo struggimento viene prima della liberazione quindi va bene, soffriamo tre minuti.

  12. Bruno: Hurt è splendida, specie nel contesto morente-Cash
    Ma il picco artistico di Reznor è “..and all that could have been” (la canzone, non il disco live che pure lui fa sbavare).

  13. Forse i meno giovani ricorderanno “Seasons in the Sun” (Terry Jacks 1974). Un teenager che sta per morire per cause non specificate saluta il padre, il suo miglior amico e la sua ragazza ricordando i momenti salienti della sua breve vita. James Sullivan, nel suo imprescindibile “The enduring appeal of an abominable pop song”, dà una spiegazione socio-politica al fiorire di queste canzoni strappalacrime negli USA degli anni ’70: “There was, to be sure, stiff competition at the time—Gilbert O’Sullivan’s “Alone Again (Naturally),” Bo Donaldson and the Heywoods’ “Billy, Don’t Be a Hero.” During those mid-Watergate weeks and months, the whole country seemed eager to wallow in tuneful misery.”. Pone inoltre un interessante quesito, riferito a “Seasons in the Sun” ma estendibile a tutte le canzoni del genere: “If it’s so universally despised, then why does this song refuse to die?”.

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