Questo è un ritratto di Luca Josi, il mio migliore amico, l’unica persona al mondo cui mi considero un subalterno. Il ritratto fu pubblicato anni fa su un’edizione del Foglio (domenicale) che non leggeva nessuno. Qua e là, mimetizzato nel racconto, faccio vagamente capolino anch’io. Tolgo i commenti perchè, per i pochi cui possa interessare, non c’è niente da dire ma solo da leggere.
Scena.
E’ il 22 gennaio 2000 e c’è stato il funerale di Bettino Craxi. Il professor Giuseppe Josi legge i giornali e telefona a suo figlio Luca: “Ma non ci sei andato?”. In effetti di Luca non si parlava. Ma come: non lo vedeva praticamente da nove anni, e ogni volta aveva solo vagamente saputo che suo figlio era rimasto incollato a Craxi praticamente sempre, e ovunque, nel dolore e nella battaglia, e ora – ora – non era andato al funerale?
Si evinceva questo. Non si parlava del pazzoide che era andato e venuto dalla Tunisia almeno duecento volte. Hammamet express, lo chiamavano. Oppure: Josi il samurai. Il figlio putativo. L’apostolo. Più craxiano di Craxi. I giornali avevano sempre scritto questo e non – per esempio – di quando Maurizio Costanzo, nel 1991, l’aveva definito “grande promessa della politica italiana”. Macchè. Al limite si parlava di quando Luca affiancò Craxi all’uscita dell’Hotel Raphael, la famosa scena dei forcaioli e delle monetine. Difendere Craxi, che vita. Nove anni.
E ora sui giornali niente: “Ma perchè non ci sei andato?”.
Altra scena.
E’ il 7 ottobre 1547 e la flotta della Serenissima ha finalmente sbaragliato i temibili Ottomani. Eroe della battaglia è l’ammiraglio Marco Antonio Bragadin, poi catturato dal nemico. Viene scorticato vivo per quindici giorni sinchè della sua pelle, in segno di scherno, viene fatta una salopette. Muore. Intanto i veneziani pensano che Bragadin li abbia traditi. Che storia orribile.
Tu pensa che in una chiesa veneziana c’è ancora l’urna con la sua pelle – racconta nonna Margherita al nipotino Luca, che non ne può più. La storia è avvincente, però nonna Margherita Bragadin gliela narra praticamente tutti i giorni. In alternativa lo porta in chiesa. Tutti i pomeriggi. Ma alla fine allunga tre monete da cento per fare un giro sulle automobiline elettriche, e allora va bene.
Luca Josi è nato ad Albenga il 13 novembre 1966, e il suo mito fu giocoforza l’antenato Bragadin. I suoi genitori stavano a Genova ma spesso lo parcheggiavano da Margherita, a Pietra Ligure. Suo padre era docente di Ingegneria ed era noto anche perchè a un certo Lelekis, studente greco, aveva fatto ripetere l’esame di “Statica della nave” per trentadue volte, dal 1968 al 1981. Sua madre era stata giudice minorile e poi preside in una scuola privata. In quella famiglia, in generale, il più ignorante aveva tre lauree. Da parte di padre i professori universitari erano cinque, i nonni materni invece avevano appunto tre lauree a cranio. L’unica che non aveva studiato era stata Margherita, perchè l’etichetta non lo prevedeva. Era la nobile di famiglia e suonava il pianoforte. E la menava col Bragadin.
Luca parlava poco, sembrava un bambino autistico. Disegnava. La sua unica distrazione divenne il nuoto: dai sei ai sedici anni macinò una ventina di chilometri al giorno, e talvolta ancor prima di entrare a scuola. La polizia lo beccava in giro alle cinque del mattino e stentava a credergli: “Sto andando in piscina”.
Come studente s’arrangiò. Donne poche o nessuna, lui nuotava. Poi faceva il bagnino. E il surfista. Prese anche il brevetto da insegnante di sub. Preferiva andar sott’acqua, piuttosto che socializzare. Finchè, all’ultimo anno di liceo scientifico, al Martin Luther King di Genova, scoprì la politica. I comunisti avevano percentuali bulgare e lui s’inventò una lista socialista per il consiglio d’istituto: prese più voti di tutti e senza neppure essere capolista. Scoppiò un prevedibile putiferio e tutto si fece dannatamente divertente. Smise di nuotare.
Nel 1985 si schierò con la sinistra del partito. Aveva diciannove anni e divenne segretario regionale dei giovani socialisti. Cominciò l’andirivieni con Roma, insomma, quella vita lì. Era il più giovane dei giovani. Intanto a Genova si era iscritto a Economia e commercio, ma non gliene fregava niente. Passò a Scienze politiche, stessa cosa. Prendeva i suoi bravi trenta per quanto l’ambiente lo inorridisse. E comunque era sempre in Federazione. La politica, la politica. Suo padre era stato un assessore comunale e regionale (socialista) di quel genere “indipendente” e “tecnico” e “perbene” che i pescecani di certe giunte adottavano un po’ come ornamento, intelligente ma politicamente squattrinato. L’avevano trombato alla fine degli anni Ottanta e Luca aveva fatto in tempo a vederne d’ogni sorta e a farsi crescere un po’ di pelo.
Crebbe anche lui. Conobbe tutti i maggiorenti del partito e divenne un prediletto del genovese Ugo Intini. All’università incrociò Laura Paglieri, erede della famiglia che produce il bagnoschiuma Felce Azzurra: divenne la sua fidanzata. Alla fine del 1989 invece conobbe Giuliano Amato, che allora era vicesegretario del partito. Il professore ne fece un suo protetto. Josi era responsabile giovanile per la scuola e prese a frequentare lo studio di Amato praticamente tutti i giorni. Luca scriveva e Giuliano correggeva. Fu un rapporto molto stretto. Promossero una comparazione tra libri di testo identica a quella che Francesco Storace proporrà nel 2000 da presidente della Regione Lazio. Poi, però, venne il tempo del militare. Luca non volle evitarlo (avrebbe potuto) e così tra punizioni varie gli durò quasi un anno e mezzo. Nel 1991 divenne segretario nazionale dei giovani socialisti.
Lui e Craxi si conobbero nel giugno di quell’anno, al congresso di Bari, quello della canottiera. Amato fece da tramite. Una conoscenza un po’ così: peraltro i craxiani a Luca neppure piacevano. Lui seguiva la sua strada. Era un giovanottone di 82 chili coi capelli cortissimi, l’aria da secchione, gli occhiali da miope, e le abitudini di chi non ha mai fumato una sigaretta o bevuto una goccia d’alcol in vita sua. L’invitarono a tenere dei seminari nella stessa università che nel frattempo aveva mollato. Amato sorvegliava. Fece stampare mezzo milione di libercoli sull’educazione sessuale e sulla prevenzione dell’Aids, e allora non ne parlava nessuno. Maurizio Costanzo l’invitò al suo show una decina di volte: “Io vi dico che questo ragazzo sarà presto deputato” proclamò al Parioli. Applausi e musichetta.
Ma non diverrà mai deputato. Perchè non ne aveva l’età, prima. Perchè la preferenza unica avrebbe consegnato il suo collegio a Intini, poi. Perchè non ci sarebbe stato più il partito, infine.
Ma alla fine del 1991 tutto andava bene. In dicembre si sposò con Laura Paglieri, quella della Felce Azzurra, e suo testimone fu giusto Intini. Era pronto per una vita che non avrebbe avuto.
Poi, ecco: Mani pulite. Quando esplose il nuovo moralismo, Josi era un po’ il Craxi della federazione giovanile: solo che lì anticiparono tutto nei tempi e nei modi. Chiesero le sue dimissioni per otto volte (invano) inquadrandolo come craxiano-amatiano, quindi espressione del famoso vecchio contrapposto al nuovo aspirato dai vari martelliani e didonatiani eccetera. La provenienza dei fondi che pagavano i loro pranzi e loro alberghi non li turbava.
Josi si fece più che battagliero. Fece tonanti dichiarazioni che Craxi ebbe modo di notare. Scontri e piazzate varie. Ma non riuscirono a cacciarlo: farà in tempo a veder recapitare avvisi di garanzia a tutti i leader cosiddetti nuovisti. Sarà l’ultimo segretario giovanile dei socialisti.
E non è – dopo i primi avvisi a Bettino – che Craxi e Josi si avvicinarono: è che si dissolse ogni spazio intermedio. Fu il vuoto. Anche per questo i due si fecero inseparabili. Da subito. A pranzo e a cena. Di giorno e di notte.
Craxi traslocò nell’ufficio di Josi, alla Federazione giovanile. Ed eccoli. Forse a questo punto andrebbe spesa qualche parola per spiegare che tipo di rapporto s’instaurò tra i due. E’ di prassi. Introspezioni da due soldi, pretenziose metafore. Il vecchio e il giovane, cose del genere. Citazione di Garibaldi e dei garibaldini. L’intreccio biografico non attende che un parallelo tra il martire Bragadin e l’esule Craxi, ci starebbe tutto. In alternativa, basterebbe aver conosciuto Bettino Craxi per davvero, un minimo. Basterebbe avere gli strumenti per comprendere, per davvero, un minimo, quanti ti spiegano che di Craxi ne nasce uno al secolo.
Scena terza.
E’ il 29 aprile 1993 e una folla chiassosa e inferocita assedia il solito hotel Raphael. Craxi è nella sua stanza. Giù nell’atrio c’è un gruppo di poliziotti imbarazzato e preoccupato. C’e’ anche Josi. Sta scrivendo, lui scrive sempre tutto. Ha degli strani quadernetti sui quali segna ogni significativa frase di Craxi, e ogni incontro, ogni retroscena, ogni disgustoso voltafaccia. E’ quasi sempre lui che comunica a Bettino le notizie più terribili e i tradimenti più orrendi. Per poi scriverseli. Fuori, intanto, la situazione sta peggiorando. Un poliziotto dice a Luca: “Dovete uscire dal retro”. Si sente un botto: è Craxi che ha dato un calcio alla porta dell’ascensore. “Glielo dica lei” dice Josi. Bettino si mette a posto la cravatta e si avvicina a un gruppo di turisti: “Scusate per tutto questo casino”. Il capo dei poliziotti fa un altro tentativo: “Ehm, dovrebbe uscire dal retro”. Craxi neppure gli risponde. Carica la giacca in spalla e dice a Luca: “Andiamo”. Altro calcione alla porta del Raphael, ed è un boato. La sera è illuminata a giorno dai flash dei fotografi. Via. Salgono sulla Thema blu. Via. Nicola alla guida. Umberto Cicconi affianco. Loro due dietro. Urla. Sassi. Monetine. Pugni, colpi di casco sulla carrozzeria. Craxi che sorride.
Josi, ecco: Josi è quel genere di personaggio che in una situazione del genere cerca di organizzare una controffensiva, una guerriglia, e magari ci si riesce anche a divertire come un pazzo. Ma quella volta non trovò i soldati. Ne aveva già trovati pochi quando i missini, poco tempo prima, avevano assediato via del Corso gettando banconote con la faccia di De Michelis: lui le aveva fatte raccogliere tutte, e con un drappello suicida aveva salito le scale di via della Scrofa (al Msi) e le aveva rovesciate tutte sul pavimento. Rissa. Inseguimenti per le scale. Qualcuno si era rotto un braccio. Francesco Storace aveva spento la sigaretta sul polso di Luca, che vicino all’orologio ha ancora il segno.
Scena quarta.
Interno sera. E’ il 19 febbraio 1995 e Luca Josi sta ritagliando giornali nel suo ufficio di via Boezio. Montagne di giornali. Di fronte c’è un suo amico che fuma e legge. Di lontano si sente la voce di Serenella Carloni che smista qualche telefonata. Affianco c’è la stanza di Craxi, vuota, con la bandiera italiana e il casco azzurro dell’Onu. Silenzio. La stanza di Luca è oberata di cartelline zeppe di articoli, libri infarciti di foglietti, memorie cartacee del peggio. Per terra ci sono centinaia di opuscoli col discorso tenuto da Luca il 16 ottobre precedente, quando ha fondato la Giovine Italia. I suoi soldati sono ragazzi che prima semplicemente non c’erano. Facevano altro. E torneranno a farlo. Nel frattempo sono lì a difendere una storia che non è la loro. Diffondono una rivista improbabile e sparano comunicati che nessuno riprende. Dicono cose folli che un giorno saranno ovvie. Fotocopiano ciclostilati eretici che un giorno diverranno libri Mondadori. Mani pulite ha svelato codardie raggelanti e dignità insospettabili. Va detto che Luca Josi in tutto questo seguita a divertirsi come un pazzo: ma oggi ritaglia i giornali, e il pomeriggio non finisce mai. Ogni tanto la spia rossa del telefono si accende, ed è Bettino che dalla Tunisia impartisce direttive urgenti e decisive. Josi smette di ritagliare, ascolta, discute, propone. E’ cambiato. Ora ha i capelli lunghi e gli occhialetti da fighetto. Ha perso almeno dodici chili. Ha perso anche la moglie, con Laura non gira più. Ha troppo da fare. Deve ancora ritagliare i giornali di ieri. E poi, il 7 luglio, dovrà andare a Milano da Piercamillo Davigo a gareggiare con lui in urla e supponenze, per ore, per poi lasciare palazzo di giustizia barcollante ma vergine, rincuorato da una telefonata del caro nemico Francesco Storace: “Tu sì che sei un vero camerata”. I primi di settembre invece dovrà andare a Genova a rifondare il Psi in una stanzetta dietro al porto, e incaricare il suo fidato Andrea affinchè risponda prontamente al telefono: “Partito socialista, dite”, questo mentre altri socialisti di un recente passato e di un improbabile futuro staranno ancora biascicando nenie nuoviste o più spesso taceranno, mandandogli a dire ancora una volta: smettila, ci farai arrestare tutti. Farà tutte queste cose, intanto ritaglia i giornali. All’inizio di ottobre dovrà inveire contro i finanzieri che metteranno a soqquadro il famoso covo di via Boezio, e sui giornali dovrà leggere di memoriali fantasma e di inesistenti documenti del Sisde, e dovrà quindi conservarli, quei giornali, e ritagliarli, mettere tutto nell’apposita cartellina. E in dicembre dovrà correre a Genova per veder nascere sua figlia Margherita. E subito dopo trascinarsi al funerale di nonna Margherita Bragadin, aspettando un segno, un indizio di quel che in lui, forse, starà già cominciando a rompersi.
Scena quinta.
Interno notte. E’ il 15 luglio 1996 e sono quasi le tre del mattino. Bettino è accanto a Luca e sta ammaliando un bivacco di attenti ragazzotti. Da ore. Discorsi pazzeschi che spaziano dai più incredibili retroscena sul terrorismo a improbabili affreschi sulla guerra d’Africa, e in quel momento non c’è altro luogo al mondo dove valga la pena di essere. Si parla anche di socialismo, ovviamente. Il socialismo di qua, il socialismo di là. Perchè il socialismo, del resto il socialismo. “Che poi il socialismo – scandisce Bettino, e ci mette in mezzo un pausa delle sue, lunga, ma lunga – che cazzo sia, non l’ha ancora capito nessuno”. Risate timide. Poi isteriche. I ragazzotti stramazzano dal ridere e Bettino li guarda come se gli stessero facendo un affronto, ma poi sorride, comincia a ridere anche lui, forte, ma un po’ di lato, perchè si vergogna.
Poi la notte.
Silenzio.
Josi è ancora sveglio e bisbiglia col suo amico che fuma sempre. Un rumore. Un’ombra. Grossa. C’è Bettino in mutande che sta facendosi una zoppicata notturna. Lo vedi. Ha il mano un coltello da quaranta centimetri. Cammina. Spalanca il frigo. Infilza una caciotta con violenza, la tira fuori. E rimane lì, un poco storto, invincibile, le gambe allargate, la posa da guerriero, il dardo abbassato che ha trafitto la caciotta della finta rivoluzione. Bettino Craxi.
Scena ultima.
E’ il 21 gennaio 2000 e Luca Josi sta guardando una piccola folla che ciondola fuori dalla Cattedrale di Tunisi. Si tiene in disparte. C’è anche la sua fidanzata Luisa Todini e il suo amico che fuma sempre.
Josi ha smesso di frequentare Craxi più o meno dalla fine del ’98, con scientifica e inversa proporzionalità rispetto al riflusso di sedicenti socialisti che frattanto erano tornati a invocare riabilitazioni tardive, postume. Qualche catacomba era andata schiudendosi e lui aveva cominciato a cogliere sguardi obliqui, ostili, insomma aveva capito d’esser divenuto di troppo perchè colpevole di essere rimasto vivo e soprattutto di esserlo rimasto per tutto il tempo. E Bettino comunque gliel’aveva già detto, che a guidare il nuovo partito non sarebbe stato lui. Luca aveva risposto: obbedisco. Lo spazio intermedio aveva ricominciato a gremirsi e Josi si era congedato. Fine. Qualcuno l’aveva addirittura accusato di diserzione, ma la verità è nelle lettere che lui e Bettino avevano continuato a scriversi.
Alla Cattedrale di Tunisi arriva Claudio Martelli. Luca e gli altri fanno per andarsene. Entro un anno verranno pubblicati tre libri su Craxi, e tutti riusciranno a non citarlo. Da manager televisivo bravo e affermato, presto, per questioni che ora non interessano, avrà dispute giudiziarie coi concorrenti Marco Bassetti e Stefania Craxi.
Un’auto blu, arriva Silvio Berlusconi. Arrivano anche i due rappresentanti del povero stato italiano.
Josi si sta allontanando.
Ma ecco, giunge anche il carro con la bara. Luca si ferma un attimo e poi si gira e torna verso la chiesa, quasi corre, e giunge al carro funebre e spinge via due tizi e solleva la bara, la porta dentro la chiesa con altri tre tizi che però in realtà non ci sono, non c’è nessuno.
E’ curioso come si possa portare una bara da soli.