Egitto, Dahab

Dahab non ha i grandi tour operator dietro di sé, né è pensata per il turismo organizzato, fatta eccezione per qualche comitiva di divers.
Questa sua caratteristica, di cui è sempre stata orgogliosa e che le ha permesso di crescere, come era inevitabile, con tante ingenuità ma senza acquisire l’artificialità angosciante di Sharm, pare destinata ad essere pagata, e cara: a un anno e mezzo di distanza dall’attentato di aprile 2006, qui è ancora tutto mezzo vuoto.

Sharm ci ha messo nulla a riempirsi di nuovo, dopo le sue bombe: uno entra in un’agenzia di viaggi, a Milano come a Mosca, sfoglia un catalogo e se la ritrova in mille pacchetti e combinazioni. Ci vuole poco a risorgere, così. Peccato che, di soldi da Sharm, gli egiziani e i beduini ne facciano davvero pochini: il grosso va nelle tasche dei colossi del turismo, che egiziani non sono.

Ma Dahab, che è fatta di piccola imprenditoria turistica locale?
A luglio dell’anno scorso, qui non c’era un cane.
Adesso, agosto 2007, qualche anima in più la si vede, ma nulla rispetto alle aspettative di coloro che, qui, ci hanno investito soldi, anni di vita ed entusiasmo.
E l’orgoglio di un tempo (“Qua mica siamo a Sharm!”) rischia di essere un boomerang di quelli che fanno male, se le cose non migliorano.


Se non riprende il passaparola che ha trasformato, dagli anni ’90 ad oggi, quella piccola striscetta di terra battuta con tre ristorantini che conobbi io, la prima volta che venni, in quello che ho sotto gli occhi adesso: pavimentazione e lampioncini un po’ pretenziosi ma, ancora, cuscini a terra e gatti, locali nuovi e vecchi, volenterosi e sgarrupatini anche appena fatti, neon ingenui e pancakes e il sempiterno bromuro nell’aria, ché non può esserci altra spiegazione per lo stato letargico in cui si casca in questo paesello, e tu vieni qui, nuoti, guardi i pesci del mar Rosso e te la dormi.
E’ cambiata rispetto a qualche anno fa, e tanto.
Ma non abbastanza da cacciare chi la amava prima e magari ci ha pianto un po’, di fronte a qualche novità, ma non tanto da non tornare.

Dahab è, probabilmente, l’unico posto genuinamente laico in Egitto.
Qui, storicamente, gli egiziani che ci venivano a lavorare o ad aprire delle attività lo facevano spinti, oltre che da legittime speranze di guadagno, da spirito di avventura, curiosità, voglia di conoscere mondo e gente e, certo, anche di fare l’ammore, ma mai con lo spirito un po’ da rapina di cui è fatto l’approccio a Sharm.
A loro volta, gli stranieri in vacanza qui non hanno mai raggiunto i livelli di inconsapevolezza, la ricerca della mera sedia a sdraio e del lusso di paccottiglia vacanziero che si vedono altrove.
Il solo fatto che il turismo di qui sia individuale, appunto, fa una notevole differenza.
Il risultato è che lo spirito da “vivi e lascia vivere” che ha sempre caratterizzato Dahab è rimasto intatto, nonostante qualsiasi cambiamento, e qui te ne stai in bikini con la tua birra in riva al reef sotto lo sguardo placido di un egiziano rasta o chissachè, il quale vive e lavora qui perché la ama, Dahab, e non solo per guadagnarci.
Lo hanno difeso a spada tratta, questo spirito, negli anni.
Rovinarsi per averlo difeso senza per questo svendersi all’industria della vacanza straniera mi pare troppo ingiusto.
Vorrei dare qualche informazione a chi ha ancora voglia di mare, quindi, anche se siamo a fine agosto. Ché qui, posso assicurarlo, di piogge pre-settembrine non ce n’è l’ombra.

A Dahab si arriva in taxi o in autobus dall’aeroporto di Sharm o dalla vicina bus station. Sono 90 km e il taxi non dovrebbe costare più di 10-15 euro, contrattando.
Qui, per dormire, c’è solo l’imbarazzo della scelta: dai 6/7 euro a notte dei camp spartanissimi ai 70 euro in 3 (23 euro a testa, colazione compresa) che si pagano per la stanza tripla bellissima con terrazzo a bordo piscina del Nesima, l’albergo più elegantino del paese.
Noi siamo al New Sphinx: meno bello del Nesima ma più che dignitoso, con piscina, aria condizionata e frigo in camera, oltre a un servizio gentilissimo, e paghiamo per la doppia 10 euro a testa per notte.
Naturalmente, non c’è nessun bisogno di prenotare alcunché: uno arriva, si guarda attorno e decide quale alberghetto gli piace di più.

La birra costa circa 1 euro, come le sigarette.
A pranzo, per mangiare, spendiamo sui 4 euro a testa. Di sera, con 7 euro ceni tranquillamente, birra compresa.
Ed io sto scrivendo dal Penguin, in questo momento, seduta sui cuscini di fronte al reef con l’Arabia Saudita di fronte e il wireless gratis.
Volendo, potremmo affittare una macchina e andare a esplorare il Sinai per conto nostro, o farci scarrozzare dalle decine di organizzatori di escursioni (dalla notte sotto le stelle nelle oasi beduine passando per Santa Caterina o il parco marino di Ras Mohamed e mille altre cose) o, semplicemente, fare ciò che facciamo in questi giorni: andare a fare il bagno nell’acqua turchese della Laguna, sonnecchiare sui cuscini di Dahab nelle ore calde, magari un bagno con maschera e pinne attorno al reef qui di fronte nel pomeriggio, a vedere un po’ dell’ acquario naturale che c’è qua, e poi cena, succo di mango o di melone, birretta e musica e un poltrire a oltranza, ché di posti più adatti alla pelandronaggine, personalmente, non ne conosco.

Io temevo che venisse ucciso dal turismo, questo posto.
Adesso temo che venga ucciso dalla mancanza di turismo.
Quello che so, è che vorrei che rimanesse vivo.
Dire che lo merita è poco.

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