E’ morto Mstislav Rostropovich.
Quel raffinato e sofisticato e ricercato mondo di cialtroni che è il mondo dell’arte e della cultura (dov’è la pistola?) notoriamente fioreggia di uome e di femmini che s’atteggiano a predestinati e a eletti: spiriti vaganti e stravaganti che a mezzo d’interviste capricciose e ardue da ottenersi (è più facile intervistare Bin Laden, a meno che le interviste le chiedano direttamente loro, viscidamente, o per intercessione di qualche orrendo galoppino) e insomma, da capo: quel raffinato e sofisticato mondo eccetera che è il mondo dell’arte e della cultura (pistola) fioreggia di maestri e di artisti (napalm) che ogni volta ti spiegano che sono se stessi da sempre, e che ti raccontano che, qualsiasi cosa siano, la nacquero, e che ti sospirano che, qualsiasi cosa fosse accaduta, loro sarebbero stati comunque: perché la vocazione, perché la passione. Musicisti e compositori e direttori d’orchestra, non di rado in un clima un poco ovattato, da catena alberghiera, a metà strada tra un Rotary e un Arcivescovado, ti spacciano un’aura da uomini del destino che finisce per annacquare una loro connaturata e malcelata spocchia. Gente che ti parla come se a quattro anni già avesse saputo che un giorno sarebbe diventata questo e quello, e giù aneddoti, episodi di rivelazione.
Tutto sommato, fanno ridere. Già scrissi che milioni di potenziali musicisti o compositori talentuosi, nella loro vita, hanno assai probabilmente e semplicemente fatto altro: servito in osteria, cavato denti al prossimo, conquistato terre lontane. Una volta Rostropovich osò interrompere sua moglie – la cantante Galina Vichnevskaya – che stava dicendo a un giornalista: “Per me la musica è la vita stessa, non avrei potuto vivere senza, non riesco neanche a immaginare una simile possibilità, senza la musica credo che sarei morta”. My God. Rostropovich le disse: “Saresti vissuta lo stesso e avresti lavorato come tutti”.
Ecco, prendete lui, ‘Slava’ Rostropovich. E’ stato probabilmente il più grande violoncellista di tutti i tempi, prediletto di Karajan, amico di Andreij Sakharov, apprezzato direttore d’orchestra, personaggio che a casa sua ospitò Alexandre Solgenitzijn e che poi fu privato, nel 1974, della nazionalità sovietica. E’ quello che nell’89 suonava davanti al muro di Berlino mentre lo demolivano. Ecco: uno così, magari, i discorsi sulla vocazione e la predestinazione potrebbe anche permettersi di farli. Questo ed altro.
Una volta però l’intervistarono e disse che avrebbe potuto fare qualsiasi mestiere. Gli chiesero quale avrebbe preferito, e tutti si aspettavano il musicista. Lui disse: “Da studente rimediavo soldi incorniciando quadri; più avanti, quando vivevo in campagna, costruii anche una bara”.
Faceva le bare.
E ancora: “A casa, quando qualcosa si rompeva, ero sempre io a ripararla: anche la macchina per cucire, anche gli orologi da muro. Sono stato io a fare tutto l’impianto elettrico nella nostra casa di Mosca”. Sì, ma che mestiere avrebbe voluto fare da bambino? E lui: “Il medico, l’autista, l’attore, costruire case”. L’architetto? “No, il muratore. Nella mia infanzia sentivo il bisogno di toccare le pietre, di lavorare in cantiere. La musica avrebbe accompagnato comunque la mia esistenza, ma sarebbe esistita solo per me. Mia moglie dice che sente il bisogno di dare la musica agli altri, ma io sento che a me bastano le mie emozioni”.
E il rapporto con il pubblico? Il fatidico rapporto tra artista e pubblico? My God. Disse lui: “Avevo quindic’anni e partecipavo a delle serate a tema. C’era, per esempio, la serata dei valzer e delle serenate. Per essere pagati bisognava suonare tre pezzi. Per i primi due non avevo problemi perchè li avevo pronti in repertorio, ma il terzo dovevo prepararmelo all’ultimo momento. Allora imparai un valzer di Kreisler che si chiamava Pene d’amore. Avevo, appunto, quindic’anni: quando salii sul palco coi pantaloni corti, il presentatore disse: “E adesso Slava suonerà Pene d’amore”. Il pubblico scoppiò a ridere, non riuscivo a iniziare. Presi coscienza di che cosa sia il pubblico”.
E infatti Rostropovich suonare per sè, non per il pubblico: “Mia moglie dice che sente il bisogno di dare la musica agli altri, ma io sento che a me bastano le mie emozioni”. Sapeva che la musica, in sè, non è messaggera di niente, non la puoi imbrigliare, è ineffabile, ti sfugge e ogni volta si ripulisce da ogni connotazione storica, ideologica, regolamentatrice, si fa persino beffe delle velleità ispiratrici e celebrative che l’hanno creata. La musica resta, sono gli uomini che muoiono. E quando suonò davanti al muro di Berlino, nel 1989, nessuno gli chiese che musica stava eseguendo.
Slava divenne un musicista, ma avrebbe potuto fare bare per tutta la vita.
L’unione sovietica e il comunismo non gliene facevano mancare motivo.