Il rischio, adesso, è che ai cinesi milanesi si accòdino anche tutte quelle minoranze etniche e metropolitane la cui separatezza culturale è solo il travestimento di una separatezza delle regole.
Si sta parlando delle regole che gravano su tutti gli altri, le regole ascritte al diritto naturale ma scritte soprattutto nel codice penale e amministrativo: le regole, insomma, che gli italiani di ogni colore e di ogni accènto sono costretti a rispettare e talvolta sono addirittura orgogliosi di avere.
Detto in parole povere, a Milano sta succedendo che ai cinesi che protestavano si siano comiciati ad accompagnare non solo le solite frange dei soliti centri sociali, che è roba fisiologica, ma soprattutto anche molti extracomunitari già proprietari per esempio di phon-center, insomma di quel genere di esercizi commerciali che aprono e chiudono come funghi e agiscono secondo leggi del tutto proprie soprattutto in certe casbah milanesi: leggi che, come per i cinesi meneghini, non sono nè quelle dei loro paesi d’origine nè quelle del Paese che li ha accolti.
Sono leggi (sarebbe meglio dire consuetudini) che per molto tempo si sono mosse in una terra di nessuno dove un’integrazione comunque non facile doveva incontrarsi con l’effettiva ‘improbabilità che cinesi o arabi o africani si trasformassero d’un canto in piccoli svizzeri, una terra che tuttavia, se possibile, li avviasse a diventare mediocri italiani come tanti di noi. Una terra di nessuno in cui, per anni, si è chiuso un occhio (facciamo due, facciamo tre) purchè regole e integrazione rimanessero sullo sfondo, negli obiettivi finali.
Ma ora non è più così, siamo in un’altra era. Chinatown, ovvero la zona attorno a via Paolo Sarpi, è una zona franca abitata quasi solamente da cinesi e dove nessun’altra etnia vuole più saperne di andare ad abitare: e non c’è agenzia immobiliare che non lo confermi.
Non è più un luogo dove l’integrazione del cinese è più facile: è il luogo dove nessuna l’integrazione è più necessaria. Si parla solo cinese perchè l’italiano lo studiano in pochissimi, si mangia cinese e soprattutto si lavora e vive con regole che, se non sono cinesi, sicuramente sono poco occidentali.
E infatti il dramma, forse l’aspetto più inquietante, è che in questa situazione molti cinesi pseudo-italianizzati probabilmente credono davvero di essere dei vessati: non sanno neppure che il lavoro minorile stipato in qualche scantinato, da noi, è reato, magari non sanno che la monnezza non si butta in strada, che nei trasporti esistono normative di sicurezza create per ragioni precise, figurarsi che concetto possono avere della cosiddetta quiete pubblica, quella cosa chiamata senso civico.
La Chinatown milanese espelle e crea: nel caso, 8 minimarket, 3 macellerie, 10 negozi di giocattoli e per bambini, 4 negozi di computer e telefonia, 7 erboristerie, 16 parrucchieri ed estetisti, 7 edicole e cartolerie, 8 esercizi di noleggio libri e musica e film, 334 ambulanti, 253 grossiti, 301 impresine tessili, più varie agenzie di viaggio e per matrimoni: tutto di cinesi e rigorosamente per cinesi, provate a entrare senza esserlo, provate a pagare non in contanti e a farvi rilasciare uno ascontrino, se ci riuscite.
Un mondo a parte che reclama regole a parte, niente di strano che a contestare ci fossero e ci saranno anche extracomunitari della zona dietro Porta Venezia, dove appunto abbondano quei phone-center e internet-point cui il comune ha cercato di dare una regolata ricevendene in cambio la solita farfugliata accusa di razzismo sottolineata dai cretini: così, tanto per intorbidire le acque, tanto per chiamare le cose con un nome diverso.
Chiamare legittima reazione, per esempio, una pura aggressione, chiamare razzismo l’applicazione delle regole, tirare in ballo la democrazia con il sostegno paradossale di un’ambasciata che la democrazia non l’ha mai conosciuta in migliaia di anni. Buttarla in caciara, in altre parole.
E’ l’unico tratto italiano che hanno rapidamente assimilato.