Quello che ti hanno detto di San Pietroburgo non conta niente. Ci devi andare e basta. Puoi aver letto tutti i libri del mondo, ascoltato i compositori russi sino allo sfinimento. Non conta. Ci sono città che risultano identiche all’immagine che te n’eri fatto, ma non è questo il caso. Devi andarci. E poi magari avere il coraggio di ammettere: non so spiegarlo. E ritrovarti ugualmente nell’imbarazzo di doverne scrivere, arrabattandoti, inventandoti sequenze di aggettivi e iperboli che descrivano l’indescrivibile.
Di cosa scriverai? Dei “tramonti minacciosi” e di certa “luminosa tristezza”? Delle “nubi scure e pesanti” affacciate sulla Neva, fiume ovviamente “freddo e impietoso” in un clima da “imminente catastrofe”? O partirai dalle notti bianche, il sole che non tramonta mai, la luce che si fa pallida e diffusa, il silenzio irreale? Cazzate.
Cazzate. Avrai scomodato qualche stereotipo, ma non avrai scritto niente. Tantomeno di musica. Se dovrai scrivere di musica avrai solo il problema di spiegare come anche la musica, qui, sia inscindibile da tutto il resto. Come in nessun’altra città del mondo. Nessuna.
Luce surreale, boreale: sei a San Pietroburgo, fondata nel 1703 dal visionario Pietro il Grande, lo zar che in soli trent’anni pretese di costruire una nuova capitale monumentale e fantastica. Volle farlo in un terreno paludoso e infestato dai lupi, affacciato sull’Europa ma anche sul Mar Baltico, e chiamo’ a raccolta i migliori architetti del mondo. Vi riuscì, infine. Ma ne pagarono il prezzo le centinaia di migliaia di uomini stramazzati nel costruirla. Da allora, la storia di Pietroburgo è appunto questo: sangue e sofferenza. Palcoscenico di potere assoluto, sì, ma soprattutto inondazioni devastatrici, tre ferocissime rivoluzioni, purghe, terrori staliniani e hitleriani, e un assedio rimasto senza paragoni storici. Distrutta, privata di tutto, persino del nome. Divenne Pietrogrado, poi Lenin riportò la capitale a Mosca, poi divenne Leningrado, per tornare San Pietroburgo solo nel 1991.
Di peggio c’è solo il nostro albergo. L’hotel Pribaltijskaja è nella periferia degradata dell’isola Vasilevskij, 1500 stanze di perfetto orrore sovietico in mezzo a casermoni di raccappricciante uguaglianza. Viali spaventosi, fatti di nulla. Piove. Attraversi il ponte sulla Neva, guardi le acque ostili che mai ti perdonerebbero, e ti abbagli nella scenografica piazza del Palazzo d’Inverno. Devi snobbare l’Arco di Trionfo, e persino l’Hermitage, il museo più grande del mondo con i suoi tre milioni di opere. Ecco la Cappella Glinka: chiusa per lavori. Peccato. Glinka girava la Russia per reclutare contadini e farli cantare. Divenne subito un mostro sacro nazionale con Una vita per lo Zar, anche se i confini della sua musica sono rimasti quelli del suo paese. Il titolo originale era Morte per lo Zar, ma lo Zar ebbe qualcosa da ridire.
E’ già tardi, ha smesso di piovere e attraversiamo la celebre Prospettiva Nevskij con finta disinvoltura. E’ lunga quasi cinque chilometri, buttiamo un’occhiata inutile verso i centonovanta palazzi allineati a ostentare se stessi, dalla guglia dorata dell’Ammiragliato sino al Monastero Aleksandr Nevskij. Dobbiamo immaginarla com’era, pavimentata in legno, con le contesse e le baronesse e i granduchi e le carrozze e i cappellini e i fazzolettini. Ora invece corrono tutti, come presi da un’ansia oscura, negli occhi un’espressione dura e indecifrabile.
S’intravede l’oro della Cupola di Sant’Isacco, siamo quasi al Teatro Kirov. Una statua di Rimsky-Korsacov. E una di Glinka, per cui Stalin stravedeva: “Glinka canta insieme a noi la potenza indistruttibile della nostra patria sovietica” scrivevano all’epoca. Ma ecco l’ex Teatro Marinskij, il Kirov, il tempio del balletto classico, il punto di riferimento culturale della città, bellissimo. Azzurro vivo. Vi danzarono le stelle dell’insuperata scuola russa e vi nacquero i magici dolciumi di Caikovskij: lo Schiaccianoci, il Lago dei Cigni, la Bella addormentata. Gli allestimenti erano sontuosissimi. La Corona forniva tutto il denaro necessario. Poi il Comunismo. Il balletto venne considerato un retaggio borghese, e fu declino. Le tristi fughe occidentali dei Nureyev e dei Baryshnikov. L’oblio. Ricomicia a piovere.
Di fronte c’è il Conservatorio che Anton Rubinstein fondò nel 1862. Il palazzo è rimasto identico. Dietro una porta imbottita di cuoio c’è una gentile signorina che ci fa da guida. Si scusa, ma la sala grande non si puo’ visitare. Ci porta nella sala piccola, con l’organo tedesco e i soffitti affrescati. “Diedero ordine di cancellarli – dice – perche’ ritenuti borghesi, antisovietici. Ma riuscirono a nasconderli con dei pannelli di legno”. Poi racconta degli allievi Stravinskij, Ciaikovskij, Prokofiev e Shostakovic, e le brillano gli occhi. Ci fa entrare nello studio che fu di Glazunov. Un profilo di Lenin troneggia sulla parete.
La cattedrale di San Nicola è a due passi, le guglie sono forse le piu’ celebri della città. E’ la sola chiesa ortodossa che i comunisti non chiusero mai. Ha due piani, è strana, dentro è buia e profuma d’incenso. Stanno celebrando una messa. Le donne coi foulard, le icone illuminate da tremule candele. Echeggiano dei cori, i famosi cori russi a cappella. Ipnotici. Resteresti per ore. Qualcuno ti guarda male, forse non sei il benvenuto. Pensi alle esequie di Ciaikovsky che si tennero nel 1893. Centinaia di migliaia di persone, il corteo piu’ immane della storia di San Pietroburgo.
Piove. Ancora. E’ tardi. A San Pietroburgo sembra tardi a qualsiasi ora, anche se il sole è alto, non scende mai. Sarà il vento salmastro. Saranno le nuvole basse del golfo di Finlandia, o le acque torbide e nere della Neva che non scorrono: incombono. Ti trascini sino alla via in cui Ciaikovskij passò la giovinezza, mentre le atmosfere e i colori si fanno ancora piu’ surreali. Case in rovina, puntellate, cortili da risanare, androni senza luce, strade da asfaltare, facciate disadorne, finestre sporche. Silenzio. Vorresti dare un nome a quello che senti.
Riecco il sole, che tempo assurdo. Prendiamo una specie di taxi e ci immergiamo in una folata di cattiva nafta sovietica. Siamo ancora sulla prospettiva Nevsky e il tassista guida con un individualismo menefreghista che è proprio del carattere nazionale. Scendi davanti al Monastero Aleksandr Nevskij, la grande cupola, le due torri, il cimitero degli artisti. Ecco le tombe del famigerato “gruppo dei cinque”, il circolo di dilettanti che dettò le regole della nuova musica russa. Borodin, professione chimico. Musorgskij, ufficiale dell’esercito, morto alcolizzato a 42 anni. Rimskij Korsakov, marinaio. Kiju, ingegnere specializzato. Baraikirev, professione mai definita. Eppure, dell’allievo Ciaikovskij, dissero: non ha alcun talento. Ed eccolo li’ Ciaikovkij, genio compreso. Un busto di granito. Professione compositore e uomo infelice.
Cenare in Russia è una prova di carattere. Indolenza, camerieri sempre occupati a fare altro. Ti segnalano la particolarità della carne d’orso. Grazie, stasera no. Crediamo di aver chiesto dello storione salato, ma ci arriva qualcosa con le ali. Piu’ tardi, al caffè letterario, facciamo amicizia con un tizio che è convinto di parlare italiano. Ci stende con tre bicchieri di starka, un intruglio micidiale a base di vodka, brandy e porto. Poi ci spiega: quello che ti hanno detto di San Pietroburgo non conta niente. Non possiamo capire, dice, loro hanno sofferto troppo, il loro spirito è come abbottonato, hanno perso – dice – la dusha’, l’anima. La dusha’ – capiamo– è un qualcosa che ti porta a sbronzarti, a piangere, a innamorarti, a creare, a cascare dal ponte mentre torni a casa dopo un serataccia. Non averla significa cedere al fatalismo, alla sensazione di non avere un controllo sulla propria vita. Ripensi a quei volti indecifrabili sulla Prospettiva Nevsky.
Poco prima che si aprano i ponti sulla Neva, dividendo in due la città come tutte le notti, fai ritorno nella galera a quattro stelle. All’ingresso incroci due signorine che vorrebbero finire nella tua nota spese.
“E’ la bassa pressione”. Galia non ha dubbi: “E’ la bassa pressione che rende tutti così tristi. Non bastasse, qui ci sono solo quaranta giorni di sole all’anno”. Per questo lo zar volle colori cosi’ accesi, nella sua capitale. Galia è la nostra guida. Snocciola dati come una macchinetta: a San Pietroburgo ci sono 365 ponti, di cui 21 levatoi, la Neva è lunga solo 73 metri, ma è piu’ larga della Senna, nel rivoluzionario 1917 c’erano due milioni e mezzo di abitanti, ma tre anni dopo ne rimasero vivi solo settecentomila. Tutto così. Musica? Solo sulla Prospettiva Nevskij ci sono 6 teatri, più innumerevoli locali dove si suona. Un compact disc costa 5 dollari. Andare al Kirov costa 4 dollari, alla Filarmonica 3, alla cappella Glinka 1. Stipendio medio in Russia: 200 dollari.
La Filarmonica, finalmente. Quante volte ce lo siamo immaginati, Ciaikovskij che dirige la sua agghiacciante Sesta sinfonia pochi giorni prima di morire. Addio alla città imperiale, alle fontane che spruzzavano vino, ai balli e alle parate variopinte: s’avanzava qualcosa di nebuloso e ambiguo come quel suo Adagio lamentoso. Brama d’amore contro fascino e terrore della morte: era un pietroburghese, Ciaikovskij.
Ma non meno lo era Shostakovic, probabilmente il più grande genio musicale del Novecento.
Scriveva direttamente a inchiostro, come Mozart. Qui alla Filarmonica, con suoi occhialetti da infelice e il ciuffo in testa, debuttò che aveva neanche 19 anni. E fu vero trionfo. La sua Prima sinfonia se la contesero Bruno Walter a Berlino e Toscanini a New York. Poi il comunismo. Quel suo esserci e non esserci, deputato del soviet , da un lato, ma che tuttavia confidava al poeta e amico Evtuscenko: “Ho cessato di dare importanza alle mie parole, ma non ho mai scritto una sola nota in cui abbia mentito”. Cosicchè la sua musica, sfuggente per natura, sorta di linguaggio cifrato sottilmente sospeso tra un trionfo e una catastrofe, per Stalin, divenne un‘arma a doppio taglio. E fu Stalin in persona, nel 1936, ad attaccare Shostakovic sulla Pravda e a gettarlo in un cono d’ombra. Ma alla Filarmonica, nel successivo novembre, c’era tutta Leningrado. E la sua Quinta sinfonia non mentì. Parlò al cuore afflitto dei pietroburghesi, della loro vita, delle loro speranze e paure. Piansero tutti. Fu la sinfonia sul Grande Terrore, ma nessuno potè dirlo.
Poi, nel 1942, l’assedio. “Consumate l’ultima cena. Sdraiatevi nelle vostre bare e preparatevi a morire” recitava un volantino nazista. Novecento giorni di resistenza, un milione e mezzo di morti ammucchiati sulle strade, freddo, fame. “Hanno mangiato il mio cane” scrisse un triste Shostakovic: Nel ridotto della Filarmonica c’e’ ancora la prima pagina della sua Settima sinfonia, la “Leningrado”, e fotografie dei musicisti ancora sconvolti, emaciati. L’esecuzione della Settima fu preparata come un’operazione militare. La trasmisero per radio e dovetterselo ascoltarsela, là fuori, anche i tedeschi. La città si strinse, pianse e resistette ancora e ancora. Provaci tu a scrivere che cos’e’ la musica a San Pietroburgo.
“Dobbiamo comprare i fiori”. La nostra guida ha ragione. E’ tardi. Se vai a trovare qualcuno, in Russia, devi portare dei fiori o dei cioccolatini. Cammini attraverso il giardino d’estate sino al lungofiume coi palazzi illuminati frontalmente dal sole. Vedi l’incrociatore Aurora, quello che nel 1917 sparò il colpo che diede il via alla Rivoluzione d’ottobre. Attraversi il Ponte Trotskij e sei sull’isola Petrogradskaja, accanto alla fortezza dove sono sepolti i Romanov. Raggiungi una via secondaria. Il palazzo è squallido. C’è un portiere imbruttito, ti fa passare a fatica. Sali sopra una specie di montacarichi. Suoni il campanello dal suono metallico. Ci apre lei, Sofia Centhova.
Shostakovic: non esiste compositore più apprezzato ma di cui in rapporto si sappia meno. Tutti avranno sentito nominare Mozart: cinque persone su cento magari ne conosceranno anche la musica. Su cinque che invece conoscano il nome di Shostakovic, ecco, ne conosceranno la musica forse in quattro: le sue note rimangono circoscritte ad appassionati e amatori che sono tuttavia affatto numerosi: basta vedere i tanti dischi che se ne vendono. Dei citati quattro, però, almeno tre del personaggio Shostakovic sapranno nulla, o peggio avranno letto le solite Memorie curate da Solomon Volkov: un’operazione editoriale sciagurata e che soprattutto non ha praticamente alternative. E’ come se di Mozart fosse in circolazione solo il film Amadeus.
Non occorre essere specialisti per accorgersi che le citate Memorie valgono niente. Furono pubblicate nel 1979 da questo giornalista emigrato dall’Urss in Occidente (Volkov) e sono ricolme di osservazioni semplicemente improbabili e che stridono, soprattutto, col timido e complicato patriota che Shostakovic comunque fu: sembra piuttosto uno Stravinskij, un caustico, uno che giudica “infami” le esecuzioni di Toscanini e che dice tante cose magari anche probabili e che talvolta possono corrispondere ai nostri desideri, e la furbizia di Volkov sta lì: nel trasformare il sofferto patriota – uno che amava comunque e sinceramente il suo paese – in un dissidente caro a certa iconografia occidentale. Ma il libro di Volkov, notare, non è fondato su scritti autografi di Shostakovic; non ci sono registrazioni; è stato pubblicato postumo per specifica volontà di Shostakovic, ha detto Volkov; e in esso il compositore parla poco di sè e molto di altri: racconti e misfatti non verificabili, cose appunto anche belle e condivisibili, ma che non significa lui abbia sottoscritto: in compenso le Memorie sono state ritenute estremamente improbabili dalle autorità sovietiche (e vabbè) ma nondimeno dagli allievi di Shostakovic e poi dalla vedova, che peraltro ha confermato che i colloqui con Volkov vi furono, sì, ma è impossibile che siano stati più di cinque o sei: davvero poco per un volume di quattrocento pagine che è basato solamente su appunti. Il figlio di Shostakovic disse poi che “non sono le memorie di mio padre, è un libro di Volkov” e aggiunse che l’unica biografa attendibile era Sofia Chentova.
Che ora è lì, sulla soglia, ci guarda storto. Accetta i nostri fiori e i nostri biscotti. Entriamo in salotto. Centinaia di libri impolverati, un pianoforte, spartiti, piccoli busti di musicisti, e foto di lei con Dimitri Shostakovic. Sofia avrà settant’anni, sembra una nonna russa, una babushka. Vuole sapere chi siamo e dove scriviamo. Ci regala uno dei suoi trenta libri su Shostakovic, dovrebbe esserne la più grande studiosa al mondo. Partiamo malissimo: l’interprete traduce la nostra domanda e la faccia di Sofia si fa truce. Vogliamo sapere se ritenga che il comunismo abbia minato il più grande genio musicale del Novecento.
“In Occidente avete una visione distorta di Shostakovic. Nessuno dei vostri autori ha consultato conosce davvero la storia di questa città dopo la guerra. Nessuno ha consultato gli archivi. Io l’ho fatto. Ho lavorato solo sulle carte e sui miei ricordi”. Ci mostra la sua monumentale biografia in due volumi, e si capisce, vorrebbe la comprassimo. Ma è in cirillico. “Dimitri credeva nella Rivoluzione. Suo nonno era un rivoluzionario. Era una persona sincera, un genio di purezza e di bontà, e, come succede ai grandi, aveva doni di preveggenza. Ma quando dedicò la dodicesima sinfonia a Lenin, era sincero”. Gli ricordiamo l’editoriale di Stalin che gettò Shostakovic in un cono d’ombra. Vuol dire che non cercarono anche di frenarlo, di tarpare la sua creatività? E lei ammette: “Ma sì, nel ’36 e nel ’48, per esempio. Ma è normale. Lo è sempre, quando vedi piu’ avanti, quando sei un genio. Alla fine devi pagare sempre, quando sei un genio”. Ci mostra la scrittura autografa con cui Dimitri l’autorizzava a scrivere di lui. “Lo conobbi nel ‘47. Avevamo le dacie vicine”. Ci mostra altre fotografie di lui e lei. E centinaia di audiocassette con la sua voce registrata. Fu Sofia ad aiutarlo a scrivere la Quindicesima sinfonia, sorreggendogli il braccio tremante. “Il suo matrimonio non era felice”, dice. E ti sembra di cogliere, nei suoi occhi, uno strano bagliore. Pensavi di incontrare una storica e invece hai incontrato una donna.
E continua a parlare.
***
(Estate 2000. Pubblicato su Il Giornale).
se i comunisti dovessero ricoprire di pannelli di legno tutto ciò che ha un aspetto borghese vivremmo in gigantesche saune a cielo aperto popolate da tabuti
Rossini, Ciaikovskij…
Aspetto con ansia un tuo pezzo su Shostakovich.
Inviato da: Cinemator , 03.12.05
Voglio Shostakovich.
Inviato da: Cinemator , 08.12.05
Chi la dura la vince.
No, te ora chiudi i commenti!
a parte le “tremule candele”, era un pezzo bellissimo, dannazione.
Sig. Effe, lei è tremendo.
Me ne stavo a San Pietroburgo passeggiando sotto al cielo grigio in compagnia di Sofia e poco più in là carne d’orso e Dimitri e c’era lo zar e anche Ciaikovskij e casermoni tutti uguali….
Passeggiavo in silenzio e lei mi interrompe con le tremule candele. Ma le pare?
Facci, fai solo musica classica o spazi anche su altri campi? Ti regge a scrivere la biografia di Wernher Von Braun?
bello, facci, gliel’hai cantate, a pietroburgo. adesso vieni a cantarle a cuneo che poi vediamo.
“candele tremule” e tutto va a posto.
Hey!Ma i commenti non andavano spediti rigorosamente
via mail?
a Fabbri’ ma proprio non lo vuoi capire che di scienza non ne sa niente nessuno? questo per un semplice motivo: non gliene frega niente a nessuno.
Mi spiace, veramente, ma fattene una ragione senno’ rischia che ci stai male veramente.
Auguri.
“a Fabbri’ ma proprio non lo vuoi capire che di scienza non ne sa niente nessuno? questo per un semplice motivo: non gliene frega niente a nessuno.”
Parla per te…a me importa.
Una biografia di Von Braun sarebbe una figata.
Tempo fa scrissi solo questa breve cosa:
***
Gas allucinanti. Giganteschi aerosol che nebulizzano narcotici. Una specie di polvere fatta di microscopici sensori. Un cannone elettromagnetico che provoca dolore a chilometri di distanza. Questo è il presente. In parte, è il futuro.
Wernher Von Braun, un genio assoluto, il futuro lo vide così: “Nel 1989 gli sbarchi sulla Luna saranno regolari. Avremo anche messo i piedi su Marte. Un missile destinato a Giove sarà in costruzione. Per il 2000 ci saranno molte città scavate nel sottosuolo. Un’immensa astronave porterà i turisti da un pianeta all’altro. Una catena di grandi alberghi sta progettando un edificio lunare con cento letti. La General Electric stima che un reattore nucleare potrà provvedere alla fornitura di aria. La Rocwell Company ha in progetto un ospedale spaziale”.
Von Braun non era un cretino: aveva sempre azzeccato ogni previsione. Forse, però, non aveva studiato a sufficienza la propria biografia. Dopo aver inventato i primi missili quasi per gioco, non ebbe finanziamenti sinchè la Lutwaffe non l’incaricò di costruire un caccia a razzo. Dopo essersi iscritto al partito nazista, non ebbe finanziamenti sinchè la Wehrmacht non gli diede qualche spicciolo per costruire la V2. Poi Hitler vide il filmato del missile e lo coprì di soldi: e le V2 progredirono sino a fare 2274 morti a Londra. Nel dopoguerra, prigioniero negli Usa, fu deriso per anni: diceva che avrebbe potuto mandare un satellite attorno alla terra. Poi ce lo mandarono i russi (lo Sputnik) e allora ecco, lo coprirono di soldi per fare l’Explorer in novanta giorni. Lo fece in ottantaquattro: c’era la guerra fredda e non si badava a spese. Con la stessa logica, in dieci anni, Von Braun mandò l’uomo sulla Luna. E fece le previsioni che abbiamo visto, ed erano plausibili: ma non aveva calcolato che la sua idea di progresso non avrebbe più coinciso con nessuna guerra.
Dopo aver apprezzato questa bella biografia di Dejan Stankovic aspettiamo trepidanti quella di Esteban Cambiasso.
Accidenti, mi fa venire sempre la pelle d’oca, signor Facci, ma… “dovetterselo ascoltarsela”?
(..) la Neva è lunga solo 73 metri, (..)
alla faccia! Scritto nel 2000 e passano ancora simili refusi?
Ho come il sospetto che Facci dissemini volontariamente i suoi articoli di imprecisioni… In passato ne ho segnalate alcune; ora, per non passare io per un deficiente le scrivo tutte con la stilografica in un quadernino d’oro che custodisco gelosamente.
Obiettivamente non credo che chi ricerca e assimila informazioni, taglia, imbastisce, cuce, debba poi preoccuparsi di eliminare filetti qua e là. Non lo credo più. C’è chi crea e chi corregge; alcune professioni a causa di crudeli leggi di mercato, partendo da un prodotto finito da trasformare, si trovano a dover fare tutt’e due, ma va a scapito del risultato finale.
Tranquilli, nell’articolo pubblicato (e nel libro che l’ha ripreso) la Neva è lunga 73 chilometri.
Quale libro?
Beh, per Von Braun è un po’ pochino ma potrebbe essere un buon inizio.
Sto quasi per vincere il mio granitico pregiudizio contro i giornalisti e andare a vedere cosa ha scritto Facci.
Mi scuso per i miei commenti abbastanza futili, cercherò di astenermi come in passato e di godermi semplicemente i pezzi di Facci.