Da immaginarsi la scena.
Siamo a Parigi, è il luglio del 1860 e i due titani dell’opera mondiale, Richard Wagner e Gioachino Rossini, sono finalmente a confronto. Il tedesco è andato a trovare l’italiano nella sua villa di Passy. Ed eccoli. Wagner non è ancora compiutamente Wagner e Rossini non è più compiutamente Rossini, ma chi se ne frega: ha da iniziare un’immortale disquisizione sui destini del teatro musicale drammatico, pronti via. E parlano. Ascendono e trasvolano. Planano e poi risalgono. La musica dell’avvenire, il ruolo dell’artista nella società, quelle cose lì. Però, ecco: Rossini ogni tanto chiede scusa e si allontana e ritorna dopo qualche minuto: “Dove eravamo rimasti?”.
E allora si ricomincia. Parlano. Ascendono e trasvolano, eccetera. Sinchè Rossini prende e sparisce e poi ritorna ogni volta: “Dove eravamo rimasti?”. Snervante. Lo fa due e tre e cinque volte. Wagner allora chiede spiegazioni: “Pardon monsieur – spiega Rossini – ma ho sul fuoco una lombata di capriolo. Deve essere innaffiata di continuo”.
L’episodio – artefatto o meno che sia – piacerà a chi vorrebbe liquidare il mistero di Gioachino Rossini nella maniera più semplice possibile: sostenendo che divenne, dal 1830 in poi, uno scimunito. Naturalmente non è vero. Ma forse è il caso di spiegare di che mistero stiamo parlando.
Il mistero è questo: perchè uno come Gioachino Rossini, che nel 1830 era il più famoso e celebrato compositore del suo tempo, si ritirò completamente dalle scene a soli 37 anni? Si badi che definirlo “famoso e celebrato” non rende neppure l’idea. Scrisse Stendhal: “Da quando è morto Napoleone, si è trovato un altro uomo di cui si parla ogni giorno a Mosca come a Napoli, a Londra come a Vienna, a Parigi come a Calcutta: la gloria di quest’uomo non conosce confini se non quelli della civilizzazione, e ha solo 32 anni”. Scrisse Mazzini: “Rossini è un titano di potenza e di audacia, è il Napoleone di un’epoca musicale”. E ammise il medesimo Wagner: “Per me fu il primo, vero, grande, venerabile uomo che io avessi mai incontrato nel mondo della musica”. Eppure giusto a metà della sua esistenza (morirà a 74 anni) abbandonò tutto e non compose praticamente più nulla. Senza dare spiegazioni. Il suo Guglielmo Tell aveva appena trionfato all’Opéra di Parigi e l’avrebbero replicato per seicento volte. E ora puff, sparito. Correva voce che stesse dedicandosi all’allevamento dei maiali, ai piaceri della carne (animale) e quindi insomma ai caprioli e ai cotechini e ai tartufi. Un pazzo. Perchè l’aveva fatto? La maggioranza dei compositori ha dato il meglio di sè nella seconda metà della propria vita, se non addirittura al crepuscolo della medesima: quando, cioè, il soffio dell’imperscrutabile suggerisce commiati e testamenti che hanno fatto la storia della musica. Si pensi a un Beethoven che si fosse ritirato a 37 anni: oggi non sarebbe Beethoven, e neanche un suo parente; Wagner, a quell’età, non aveva neppure composto il Tristano; e poi Ciaikovskij, Strauss, Mahler, decine d’altri: avremmo perduto un patrimonio inestimabile.
“I maiali – proseguiva, rivolto a un Wagner interdetto – non vengono allevati solo per essere mangiati, servono alla caccia dei neri diamanti della cucina, fiutano il profumo dei tartufi”. Certo. Senz’altro. I maiali sono importanti. Demenza? Genialità? Forse entrambe le cose: “Nella mia vita – aggiunse Rossini, emblematico – ho pianto solo due volte: la prima quando sentii suonare Paganini, la seconda quando, durante una gita in traghetto, un’oca ripiena di tartufi cadde fuori bordo. Riesce a capirlo?”.
Proviamoci. Gioachino Rossini nacque nel 1792 in una stimolante via di Pesaro – via del Fallo 29 – e aveva una voce così talentuosa che i genitori valutarono seriamente di castrarlo. Non è nota la sua opinione, ma la scampò. Ebbe la sua prima opportunità quando un’opera del cartellone venne improvvisamente a mancare: ci pensò lui e orchestrò il libretto in un battibaleno. Era già Rossini. Aveva inizio una carriera spaventosamente produttiva che l’avrebbe reso famoso dall’oggi al domani.
A 21 anni era già celebratissimo. Sue specialità furono dapprima le opere buffe, sorta di sospensioni della nobile e paludata opera classica (il mito, il destino, gli eroi) che cedevano il passo a storie di padroni e di servette e di denaro: farse piccanti, ricche di humor e di non-sense, gioielli di prodigiosa leggerezza con l’orchestra che traboccava d’energia. Divenne un cosiddetto maestro di cartello, il cui nome era sufficiente per riempire una sala.
Forse bisogna spiegare che i teatri erano alquanto diversi da come li concepiamo oggi. Prendiamo La Scala, in cui pure Rossini trionfò: al primo piano aveva una bottega del caffè in cui la gente s’intratteneva a leggere, mentre si preparavano bevande calde da servire nei palchi; al secondo piano c’era una cucina e una pasticceria e dei camerini per le cene, con gli aromi delle pietanze a spandersi per tutto il Teatro; al terzo piano c’era una stanza per il gioco di commercio e una galleria dei giochi veri e propri. E la musica? Quella, intanto, andava. In ogni palco non mancavano i liquori e un braciere per cucinare o per scaldarsi, e le tende, quelle che dànno verso il palcoscenico, erano appunto delle tende e si poteva chiuderle così da farsi gli affari propri, magari non da soli. Nel complesso, un baccano d’inferno: tra sguardi e ventagli, l’arte si mischiava all’intrattenimento, e nei teatri, illuminati con splendidi lampadari in argants, i borghesi e gli aristocratici si ritrovavano anche per fare un po’ di casino.
In questo acquario, Rossini nuotò come un corpulento e gaudente pescione che per quanto genio, e genio vero, non difettò tuttavia di quelle arguzie che sono proprie dell’uomo di mondo. Fu un turbine di innovazioni rivoluzionarie: le sue opere fecero il giro del mondo e il pubblico prese a dividersi tra rossiniani e antirossiniani. Lui, inebriato, scrisse il Barbiere di Siviglia in 13 giorni e Cenerentola in 14, quindi una media di sei commedie all’anno sinchè il mondo fu avvolto da un’ebbrezza: i viennesi, per Rossini, si scazzottavano, Metternich l’invitò a suonare al congresso della Santa Alleanza, Beethoven lo definiì “il musicista più significativo del mio tempo”, gli inglesi lo coprirono di soldi e i francesi lo immolarono ai vertici delle proprie sciovinistiche istituzioni, sino a fantasticarne, su Le diable boiteux, così: “Pare che due rossiniani siano stati trovati, gelati, alle quattro del mattino, in rue Rameu: le mani erano giunte, e avevano la bocca aperta per gridare bravo”. Ecco: questo signore è il medesimo che a fronte di ciò decide di ritirarsi. Così. Avrebbe potuto sfumare, moderarsi, indulgere a più passioni, e invece no. Sparì e basta. Fine. Silenzio assoluto per decenni. Perchè? Non lo sappiamo. Ma faremo delle ipotesi.
Ipotesi uno: Rossini era sfinito perchè lavorava come un pazzo da tutta la vita. Già dal 1827, in effetti, dopo la morte della madre, aveva accennato al proposito di ritirarsi. Plausibile.
Ipotesi due: Rossini aveva capito che il belcanto all’italiana stava tramontando. Il pubblico chiedeva utopie più forti, tragedie epiche e pensose, e il 1830 – l’anno in cui Rossini lasciò – corrispose a una grande svolta artistica: il romanticismo travolse l’opera neoclassica e Wagner era all’orizzonte. Peraltro, con l’esilio di Carlo X, re di Francia, le sovvenzioni agli artisti erano destinate a calare sensibilmente. Plausibile? Ma sì.
Ipotesi tre: Rossini ebbe senso e prescienza della stanchezza creativa che lo stava lambendo. Si arrestò ai confini di se stesso, quindi “pregustò l’amarezza mortale dello spirito inaridito, e quel fastidio dell’arte, ch’è più aspro e più forte nei più validi e fecondi, confessato da un Michelangelo, adombrato da uno Shakespeare” (Riccardo Bacchelli, 1941). Che cosa vuol dire? Non lo sappiamo, ma ci piace. Suggestivo. Plausibile.
Ipotesi quattro: Rossini era malato. Tormentato dalla voglia di riuscire e dal bisogno di denaro, aveva lavorato senza sosta ed è appurato che ciò lo portò, sin dal 1829, alla citata stanchezza e poi a una depressione cosiddetta bipolare, disturbo che tipicamente va e viene: “Adorabile amico mio – scriverà – voi desiderate che io di mio pugno vi scriva, eccomi ad obbedirvi; martirizzato come lo sono da tredici mesi di crisi nervosa che mi ha tolto sonno, palato, alterato l’udito e la vista, e gettato in tal prostrazione di forze che non posso vestirmi nè spogliarmi senza aiuto”. Il problema è che tra una crisi e l’altra – ogni qualvolta, cioè, Rossini avrebbe potuto, forse, ributtarsi nella mischia – spuntavano altri guai. Nel 1832 si ammalò segretamente di una brutta malattia venerea: la gonorrea, parente della sifilide. L’aveva presa da una prostituta e se ne vergognava moltissimo. Fu operato, migliorò ma poi rieccolo nell’inferno bipolare: pensieri di morte, progetti suicidi, persino allucinazioni. La salute manchevole è un argomento che certi nostalgici tendono sempre a sottovalutare. Plausibile. Molto.
Ipotesi cinque: Rossini abbandonò la carriera (o meglio: non la riprese) per la somma di tutte le ipotesi precedenti, miscelate e dosate a piacere. Una perfida concatenazione di fattori gli impedì di superare una stasi creativa non dissimile da quelle di tanti altri compositori.
Ma se questa è un’istruttoria indiziaria, allora, piuttosto, osiamo. Spingiamoci oltre. Illustreremo dunque, signori della Corte, l’ipotesi che meramente ci piace di più. Eccola. Rossini si dileguò perchè la citata somma di tutte le ipotesi precedenti (violente, ineluttabili, più forti di qualsiasi riflessione) gli permise di accorgersi che il volto della vita vera, la stagione della piena esistenza, era ben altra cosa rispetto ai ritmi demenzialmente intensi cui si era sempre e regolarmente costretto. Ebbe il tempo, e lo spazio, per accorgersi che l’assillo e la frenesia della sua vita occidentale l’avevano trasformato in un opulento criceto che correva vanamente nella ruota. La luce della vita, attorno all’ombra della morte, si staglia che è una meraviglia.
E sarà un caso, ma il male oscuro, nell’ultimo scorcio della sua esistenza, l’abbandonò senza un perchè. Il vecchio e bonario Rossini passò il resto dei suoi giorni e a ricevere amici e spiriti liberi nella sua villa di Passy: detto in altre parole, a mangiare e a bere e ciarlare a suonare e a cantare e a far raffinato bordello con le persone che amava: perchè, altro, non resta da fare. Serate memorabili: se ne favoleggiava, peraltro, negli ambienti mondani e nelle cronache dell’epoca. Giù la bacchetta, su la forchetta: aveva acquisito un’esperienza gastronomica invidiabile e nella vinificazione era addirittura un maestro. I suoi menù prevedevano, a ogni pasto, dieci portate e sei diversi vini. Specialità della casa: uova strapazzate e tournedos (filetti) rosolati al burro e guarniti con tartufo a scaglie, e una fetta di fegato d’oca spessa anche un centimetro. Da stramazzare.
Quando a Pesaro festeggiarono l’onomastico di Rossini, nel 1864, gli dedicarono una statua e un concerto con un’orchestra di duecento elementi. Accorsero ventimila persone. Rossini no, aveva altro da fare: “Lasciamo l’arte – scriveva – e veniamo alla materia che tanto prevale sulle attuali generazioni. Vorrei che vi portaste dal Bellentani, il salsamentario, e lo pregaste di spedirmi a Parigi sei zamponi”. E, sempre dall’Italia, pasta e salsicce e “certi soavi stracchini, che mi sono più cari delle croci e placche e cordoni che mi vengono offerti dai sovrani d’Europa”. E la musica? Solo per gli amici, anche quella: compose i Péchés de vieillesse, “peccati di vecchiaia” agli stessi esclusivamente riservati: “Sto cercando motivi – scriveva loro – ma mi vengono in mente solo pasticci, tartufi e cose simili”. Fa niente, Gioachino. L’ultimo peccato di vecchiaia fu la raffinata Petite messe solennelle: “Buon dio – annotò – ecco terminata questa mia povera e piccola messa. Si tratta di veramente di musica sacra, quella che ho appena composto, o di un bel pezzo di musica? Io sono nato per l’opera buffa, lo sai bene. Poca dottrina e un po’ di cuore, è tutto lì. Sia tu benedetto. E mandami in Paradiso”.
Rossini morì il 13 novembre 1868 nella maniera più antieroica possibile. Come un uomo molto normale. Non crollò sul podio, non si accasciò sugli spartiti o con la bacchetta in mano: morì a letto, obeso, con un tumore al colon, dicasi retto, dicasi sedere. Un genio. Fu inumato a Parigi, accanto a decine di geni infelici.
Ma che bella biografia!
Grazie per avermi illuminato su questo personaggio. Davvero.
Io Filippo Facci lo vedo e penso: mi sta sulle palle.
Lo leggo e penso: lo amo.
Ci sarà pure una via di mezzo.
Lo strano caso del signor R.
Filippo Facci, più volte censurato al Giornale, cerca posto al Foglio, lanciandosi in una sperticata “Lode al Ciccione”?
Qualcuno (un commediografo inglese, credo, ma non ricordo più) sull’improvvisa ‘cessata attività’ di Rossini ha sviluppato uno scenario fantasioso e divertente, diversi anni fa. Nel 1791 Mozart inscena la sua morte per sfuggire ad amanti e creditori. Si rifugia in Italia, terra di artisti e la cui lingua padroneggia, dove (dopo alcuni anni) si imbatte in un cuoco di Pesaro, musicista dilettante. Ne diventerà il ‘negro’ operista, scrivendo per lui svariati capolavori. Il fatidico 1829 altro non sarebbe che l’anno della morte di Mozart-ghost writer, il che spiegherebbe l’improvvisa sterilità artistica del Cigno di Pesaro (o Cinghiale di Lugo).
ps: se qualcuno sapesse fornirmi dettagli sull’autore di questa pièce (o romanzo? o racconto? o opera?) mi farebbe un favore.
Fabrizio, prova con “La faticosa vecchiaia di Wolfgang Amadeus Mozart” di Sergio Rendine su libretto di Lorenzo Arruga…
Per il resto che dire ?
Grazie a chi ha scritto questo pezzo su Rossini (ma di più, sul senso della vita) e a chi l’ha pubblicato.
Vien da chiedersi perchè debbano non esser la stessa persona…
Sapu, grazie mille!
Sergio Rendine mi porta un po’ a Tony Randine.
Mondi lontanissimi, eppure solo sei gradi di separazione.
(L’articolo su Rossini fu pubblicato sul Giornale nell’estate del 2001).
Ma chi se ne frega!!!!!!!!!!
Filippo, resta sempre un bel pezzo. Lo hai teso qui, a cavallo della carrettera dove sgaloppano tori e capre, costretti in questo caso a leggere di un argomento che li disorienta. Grazie.
F.F. sarebbe tutto perfetto, se non fosse per quella “c” in più del titolo.
Facci, restando in tema di suini, stai gettando perle ai porci. Perche’ lo fai?
La maggioranza dei riferimenti (e dei libri, anche seri) lo scrive con due c benchè si chiamasse con una sola. Ne ho messe due per evitare che qualcuno (molti, in genere) pensassero a un refuso.
D’altra parte una c in più o una in meno in questo caso cambierebbe poco; ma vista la qualità del post è bene far sapere anche il nome esatto di Rossini.
Come vedi quando non (stra)parli di politica è improbabile che ti insultino. Perché?
“L’articolo su Rossini fu pubblicato sul Giornale nell’estate del 2001”
Se questo corrisponde al vero, allora il Giornale merita di essere comprato e letto.
… non posso credere di aver detto davvero quel che ho appena detto…
Fabrizio, prego.
Chi è Tony Randine e cosa c’entra con Will Smith ?
Sapu, tutto molto bello, sì, ma non esageriamo: Il Giornale resta sempre Il Giornale, non illudiamoci.
Meno male che ci sei tu a vigilare.
Questo scritto di Facci è molto piacevole ed intelligente. Bene.
F.F. (tralasciando i giudizi sul “quotidiano” su cui tu scrivi) alla domanda però non hai risposto. Tu sostieni da sempre che ti si massacra a priori, al di là di ciò che scrivi. Ma i commenti a questo post come vedi non sono i consueti insulti in risposta alle tue sparate. La maggior parte ha risposto con venerazione. Dipende solo da ciò che scrivi.
Ma perchè posti? Metti una tua foto e apri i commenti, è uguale..anzi, così faresti felici noi femminelle che il Neri da questo orecchio non ci sente. Cerco notizie invece su un teorema che con la musica un pò c’entra, ossia una “legge” della natura che legherebbe la musica (quinta musicale, pare emessa dal globo terretre per effetto della sua rotazione), al colore verde, alla temperatura. Ne parlò Rol, ma non sono riuscita più ad averne notizie e sono curiosa. Qulcuno ne ha? Tu ne hai?
Sì.
Bugiardo. Ma in cambio della cessione dei tuoi diritti, sarei forse interessata al tuo pezzo, se ben approfondito.
Insisto: l’unico motivo valido per leggersi il Giornale. Ok, giusto uno dei due, c’è Oscar Eleni.
ipotesi sei:
diventò un cravattaro e spese l’altra metà della vita in bagordi.
Non ce lo vedo un cravattaro a fare i bagordi. Secondo me è diventato un pappa. E qui sta tutta la stima di Facci. Oltre ovviamente all’apologia del ciccione, tentativo di Facci di riaccasarsi al Foglio.
Wow. Che bel pezzo.
DA ASSAPORAREA volte mi trovo in totale disaccordo con le tesi espresse da Filippo Facci su le pagine de Il Giornale, altre non ne approvo i modi bruschi, ma su una cosa non ho dubbi: scrive da dio.Nell’ultimo mese ha pubblicato tre meravigliosi
Sì, proprio un bell’articolo. Ma temo che non sarà motivo sufficiente a farmi comprare Il Giornale…
Comunque, grazie: l’ho letto d’un fiato e con gusto.
ben scritto….popolare ma ben scritto…temo però che ci si sia dimenticati dello stabat mater…mica pizza e fichi….
ben scritto….popolare ma ben scritto…temo però che ci si sia dimenticati dello stabat mater…mica pizza e fichi….
Che schifezza d’articolo. Rossini era e rimarrà sempre un grande, a prescindere dai pettegolezzi che ancora oggi girano su certi giornali scadenti. Quello che più stupisce è vedere uno come Lei che, anzichè elevare, cerca di ridicolizzare un personaggio che ha lanciato il nostro Paese all’estero. Si vergogni.
Ma va’ a cagare.
Filippo Facci,
peccato per l’Intervento di Alessandro Curzi (ma era proprio il Telly Savalas di Tele Kabul?) e per la tua reazione … stizzita.
Anch’io, come Laura”, sarei interessato a sentire un tuo commento su questa frase annotata da Gustavo Adolfo Rol, sul suo diario, nel 1927, a Parigi: «Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!». Da questo momento attraversa una crisi esistenziale, fino al punto di ritirarsi in un convento.
Aiutato dalla madre, ritorna alla vita laica, e decide di mettere in pratica le proprie “possibilità”.
Non conoscevo questo sito-blog…. Che meraviglia! Grazie per scriverci, qualunque siano le vostre opinioni….. Io sono un cinquantenne teatrante da 30 anni appassionato dal tentativo di capire perchè Rossini, all’apice del successo, smise di scrivere per l’opera. Ogni notizia sul suo incontro con Wagner a Passy è benvenuta, io ho letto solo il “resoconto” di Michotte. Sapete se ci sono altre fonti ? Grazie per la risposta, Marco Avogadro
Oltre a Gioachino non scritto con una sola C l’altra inesattezza è che morì a 76 anni e non a 74