Come ho già avuto modo di dire, amo le descrizioni delle canzoni e quelli che sanno raccontartele al di là del testo. Perché non è detto che nelle strofe ci si veda tutti le stesse cose e allora, in qualche caso, l’interpretazione diventa una storia a sé, una storia della quale si conoscono già i dettagli, ma che risulta sempre piacevole rileggere.
Considero la “Fiori rosa, fiori di pesco” di Luca Sofri l’apripista di questi brani musicali in prosa. Poi venne Cesare Cremonini, e Guia Soncini si fece beccare con le dita nella sua “Marmellata #25”.
Ieri sera stavo provando le nuove cuffie e per poter lavorare sul mixer continuando ad ascoltare musica ho fatto in modo che la selezione delle canzoni andasse per un po’ in ordine casuale. Capita, in questi casi, che il tuo random juke-box passi capolavori classici che però ti hanno annoiato; oppure robaccia immonda al punto che cerchi di ricordare il giorno in cui hai deciso di farne l’Mp3 e che cosa avevi in testa; e poi succede che scelga una di quelle canzoni che conosci bene, che risenti con piacere, che ti ricordano un qualcosa, un periodo, o magari niente, ma che sicuramente si prestano ad essere raccontate. E dopo che l’hai fatto, chiunque sa dirti il titolo della canzone, anche se non ne hai citato un solo passo. Ci scommetto.
Proviamo.
E allora, c’è questa rockstar famosa, e c’è una donna che se ne è andata, da parecchio tempo ormai.
Si capisce che è una rockstar e che è famosa dal fatto che può permettersi di svegliarsi tardi e non fare nulla, nel pomeriggio, se non guardare la tv che passa i suoi video. “Suoi” nel senso che hanno lui per protagonista.
E malgrado sostenga di non avere più bisogno di lei, di non sentirne la mancanza, ecco, in certi momenti si ritrova solo. Magari in un hotel, in uno di quei posti che hanno potere di farti sentire straniero e solo anche nel tuo paese.
E così che, un giorno di quelli, decide di chiamarla al telefono.
Vinto l’imbarazzo iniziale di entrambi, iniziano a parlare dell’unica cosa che hanno in comune: il periodo in cui erano amanti. E si lasciano cullare dai ricordi della scuola, dei compagni di classe che sarebbe bello rivedere qualche volta, e dei miti di quegli anni.
Poi arrivano al presente. Lei gli chiede se sta con qualcuno, dal momento che si sono lasciati da un po’. Lui risponde che sta da solo. Lei non gli crede. Così lui parte con la solita solfa degli impegni, delle serate, dei viaggi per il tour, del non riuscire quasi mai a fare più di qualche giorno comodo a casa, e tutte quelle altre cose che, alla lunga, fanno molto artista ma minano una relazione.
Lei gli chiede se non si annoia, a fare la vita che fa, e lui, spavaldo e poco sincero, risponde che assolutamente no: va tutto così bene che non può non esserne felice.
Lui se la mena molto, si sente un pezzo di granito che nessuno ormai può più abbattere. Lei ha già capito che quel pezzo di granito ha la consistenza di un Pavesino; il suo atteggiamento tracotante la irrita, e così, en passant, butta giù una domanda bastarda che per lui è come uno Tsunami di ricordi che lo colpisce a tradimento: “Hai ancora voglia di me?”.
Lui perde le difese, una ad una. Dice: forse. Dice: sì. Dice che vorrebbe averla accanto in quel preciso momento. Sostiene che dovrebbero sentirsi più spesso, che a lui fa piacere. Siccome è un uomo, pensa da uomo, ed è qui che cade, inesorabilmente. Si dice: “così come fa piacere a me, deve per forza far piacere anche a lei”. Gli uomini ignorano il significato della dicitura “pratica archiviata”. E, dopo essersi esposto, cerca ingenuamente di coinvolgerla nel revival: “ammettilo, anche tu nei hai voglia; ammettilo, nemmeno te sei riuscita a cancellare tutto, ma proprio tutto quel che è successo”.
Sempre al telefono, lui mette su il disco delle lagnanze maschilli che stimolano l’istinto materno: “Sai, sono un giorno qua e uno là; non ho una vita normale; non riesco nemmeno a fare una pausa”. Gli manca qualcuno accanto. Glielo dice. Gli mancano piccoli gesti come una carezza. Una carezza fatta dalle mani dei lei. Gli manca quella metà di cuore che s’è portata via.
Lei, al telefono, ormai ascolta e basta. Forse sta addirittura scarabocchiando segnacci a caso sul blocco degli appunti accanto al telefono.
Ma lui continua con la tiritera dell’essere cambiato, dell’avere difficoltà a capire questo uomo nuovo che si butta sul lavoro per non pensare a tutto il resto. E le dice una di quelle cose che alle donne – in assoluto – non vanno dette. E cioè che in tutte le squinzie da “prendi e porta a casa” che incontra, quelle con cui lui poi tromba – perché, come dicevamo, è uomo, e ha l’assoluta necessità di metterla a parte del fatto che sì, malgrado tutto, anche lui tromba, e bene – beh, che in tutte quelle lui cerca un po’ di lei.
Lei non si prende neanche più la briga di rispondere. Lui passa al contrattacco.
Le confessa che questo continuo lavorare e suonare, un giorno qui e uno lì, altro non è che scappare. Un modo per riempire un buco. Quel buco che dovrebbe sentire anche lei, ora messa alle strette: possibile che non le manchi almeno qualcosa del loro rapporto? Almeno un po di lui? E non è che invece per caso anche lei rimpiange quei tempi e di quei tempi sente la mancanza? Non sarà stanca di romantici uomini perfetti tanto da rivolere indietro il suo, che forse è imperfetto proprio perché lei lo possa aggiustare? Non si è stufata di tutta questa vita vissuta lontani? E non si potrebbe, invece, raggiungere un compromesso e morire ognuno un po’ ogni giorno, ma insieme? “E mi sogni – chiede – mi sogni, la sera, quando vai a dormire?”
La storia si chiude su questa domanda.
Ma secondo me lei riattacca.
Canzoni, che ne so. Ma situazioni, tipo: ancora innamorati no, ma “qualcosa”. Risentirsi, ricuocere la pasta.
Quelle, un mucchio. Fa veramente freddo – ‘notte.
Patatine, senza anfetamine, io mi divorerò.
Ferite che non rimarginano mai.
http://homepage.mac.com/robertomoroni/thepetunias/vdr.mp3.
(20 settembre 2005).
Vivo da re (no ho bisogno più di quello che facevi tu per me, mi alzo alle tre, mi guardo alla tivù e sono sempre sù, senza te).
Credo ci fosse arrivato anche il signor Petunia, ma il suo link misterioso non funziona.
Bel racconto: non sono una rockstar ma mi sento molto “presente” e talvolta anch’io “vivo da re”.
La logica continuazione della storia potrebbe essere un bel “tango delle donne facili” che fanno dimenticare le nostalgie dei vecchi amori.
nella mia mente malata sta canzone ha un video, un video mio personalissimo. e madonna se ci ho pianto, immaginando me dietro la macchina da presa a fare la regia, poi ho imparato – a differenza del signor Fran – che le feritre rimarginano. anche quando non vogliamo che lo facciano. e allora le riapriamo noi. a forza. “qualcuno che sfiori la mia faccia stanca…” have a nice day.
OK.
http://www.thepetunias.net/archives/2005/09/post_2.html
“Gli uomini non ignorano il significato della dicitura “pratica archiviata” “. Bravo Neri, è vero. Purtroppo neanche “certe donne”: quelle che “è meglio immaginarsele che confrontarle con le contingenze”.
“morire ognuno un po’ ogni giorno, ma insieme” è semplicemente TERRIFICANTE.
La cosa più tenera di questa canzone è che quando Ruggeri la scrisse era tutt’altro che una rockstar famosa (era al primo album coi ‘Decibel’, figuriamoci! aveva al massimo fatto qualche concerto nel sottoscala del suo condominio).
Infatti io non ci vedo la rockstar annoiata e petulante, ma un adolescente fragile che sogna la vendetta di “quando sarà famoso” (senza alcuna certezza di diventarlo) e potrà permettersi di scaricare bellamente le donne più desiderabili, rinfacciando all’unica in realtà di cui è innamorato di non averlo voluto nel passato, che in realtà è il doloroso presente di chi scrive. E, in fondo, la rockstar del futuro ha l’unico momento di sincerità, in cui ammette, come il ventenne che scrive la canzone, che ha in fondo “bisogno di chi / ha lasciato qualcosa di se
proprio qui”…
Morendo un po’.
La musica è come il sesso non può essere raccontata ” bruce springsteen vh1
Ivano, hai ragione non era una rock star sebbene Contessa la canticchiasero un po’ tutti. “Vivo da re”, comunque, è il secondo album dei Decibel, il primo si intitola “Punk”. Riguardo ai concerti ne avevo registrato uno con un portatile al parco nord di Bologna. Decibel di spalla ai Windopen,era il 1979 e la cassettina, registrata da Dio, l’ho persa!!!
vivo da re , decibel… stupenda…
@ Gianfilippo: touché! Hai ragione tu: era il _secondo_ album dei Decibel. (Anche se a volte mi chiedo chi abbia comprato il primo, oltre a Ruggeri e sua zia!) :P
Io lo avrei comprato! :)
Lo stringevo tra le magre mani di diciassettenne, ma consigliato da un amico più grande, quel giorno scelsi di acquistare il primo dei Dead boys “Young loud and snotty”. Ne guadagnai a livello musicale ma, considerando le attuali quotazioni di “Punk”, ci sarebbe da piangere.
In realtà Vivo da Re, che in prima versione si chiamava Leaving Home, è una delle prime canzoni che ha scritto, prima di tutte le altre, con l’amico con cui fondò i Decibel.
Quindi l’analisi di Ivano è giusta.