(COMM MORO, 175; COMM. STRAGI, II 304-307; NUMERAZIONE TEMATICA 11)
E’ noto che la famiglia Agnelli, in un momento ritenuto di grande interesse, intendeva fare delle scelte politiche. La Sig.ra Susanna le fece, senza crearsi e senza creare problemi. L’Avv. Gianni, il capo della famiglia, fu lungamente oscillante, sollecitato dalla sua anima laica (oltre che dal disegno aggregatore di La Malfa) ad avvicinarsi al Partito Repubblicano, dal quale peraltro si allontanò, quando ebbe la sensazione che si trattasse di una tribuna troppo ristretta per un uomo come lui e per la funzione che gradiva gli fosse riconosciuta nella vita nazionale. Da qui la rinuncia, non senza qualche seguito di malumore. Umberto, pur essendo di provenienza laica (ma di originaria scuola cattolica), si avviò decisamente alla D.C. A parte le convinzioni e le valutazioni personali, ritengo che abbia giocato in lui la convinzione che, se si fa politica, bisogna farla in un partito che conti, un partito importante. E debbo dire che l’Agnelli ha preso molto sul serio la sua funzione, alla quale si applica con lo studio dei problemi e l’immaginazione di un nuovo tipo di società e di stato nel quadro e nello spirito di quella piccola società di studiosi di livello internazionale di cui ho avuto occasione di parlare.
Il retroscena è nel congiungersi del desiderio di Umberto Agnelli di far politica e della D.C. di utilizzare un nome di rilievo come qualificazione del partito in certi ambienti e punto di richiamo verso il partito del mondo imprenditoriale. Si adoperarono a tal fine Sarti, Mazzola, Boano, b. Ma l’operazione fu tutt’altro che indolore, soprattutto per quel che un nome come quello di Agnelli significa in Italia e a Torino. Insorse così l’On. Donat Cattin, non assolutamente contrario all’operazione di cui vedeva i vantaggi elettorali, ma decisamente contrario ad averlo accanto, sia pure al Senato, nella circoscrizione di Torino. Da qui la proposta, respinta dall’interessato, di un trasferimento a Cuneo e poi quella finale di Roma che fu accettata da tutte le parti. Debbo dire che la Confindustria è rimasta neutrale, anche sotto la pressione di La Malfa che aveva rivolto a Carli l’invito del suo partito. Con la D.C. non ha concordato un qualche progetto particolare, ma ha visto sancita la libertà di dibattere e propagandare le proprie idee di professionalità, tecnocrazia, europeismo. Com’è noto all’inizio vi furono dei malintesi ([l’appellativo] di Hiltoniani), ma a poco a poco è stata accettata questa maniera per la D.C. di aderire a nuovi ambienti senza troppe pregiudiziali ideologiche e politiche, avvalendosi dei nomi più idonei. Lasciar fare insomma, pur che porti voti e risonanza nell’ambiente imprenditoriale. Ho detto poi dei contrasti di Donat Cattin, ma devo ribadire che, data la natura del partito, la preoccupazione di Donat Cattin era che non vi fosse in Torino stridore, dinanzi all’operaio elettore, tra il suo nome e quello di Agnelli. Ma se quest’ultimo era lontano, a Roma, in ambiente tipicamente borghese, ch’egli parlasse di imprenditorialità e d’Europa non dava fastidio. Questa è la D.C. Questo è il suo limite, ma anche la sua forza, perché può operare senza restare legata da troppo rigide pregiudiziali.
(COMM. STRAGI, II 134-136; NUMERAZIONE TEMATICA 11)
Nelle ultime elezioni vi è una pressante offerta di candidatura alla confindustria nelle liste del PRI. Ma per molteplici ed anche comprensibili ragioni Gianni Agnelli rifiuta, mentre la sorella Susanna entra, a titolo proprio e senza problemi, nel Gruppo Parlamentare PRI. Rimane il problema di Umberto Agnelli che ha una certa ascendenza cattolica almeno nella scuola che ha frequentato. Credo che si tratti di una scelta personale, fondata molto semplicemente sulla convinzione che una politica di rilievo e con risvolti efficaci si fa solo in un grande partito. E la D.C. è, tra quelli presi in considerazione, il solo che abbia queste caratteristiche. Del resto non mi pare che Umberto Agnelli abbia problemi ideologici da risolvere, ma solo problemi pratici di essere accettato in una famiglia (litigiosa e piuttosto cattiva) che ha le sue suscettibilità. Agnelli è dunque il puro eurocrate, con tutta la formazione propria della categoria, che entra nel gruppo a lui più congeniale, per fare quella politica che reputa la più idonea ai tempi. E in questo corrisponde, ad un alto livello, a quel tipo di sostanziale agnosticismo ed opportunismo che, anche a livelli diversi, ha caratterizzato la D.C.
Egli quindi non è nel cuore dei gruppi d’ispirazione cristiana (che sono pochi), ma in quell’alone di indifferenti-simpatizzanti, ai quali interessa di fare politica.
Ch’io sappia la Confindustria non si è mossa né in un senso né in un altro. Né avrebbe potuto farlo dopo la polemica sviluppatasi per il fratello. Appoggi robusti li ha avuti in una parte dell’area piemontese (Sarti e Mazzola), contrasti soprattutto a Torino da Donat Cattin. Tutti in verità, contrari e favorevoli, gradivano di avere una lista D.C. qualificata dal nome di Agnelli (efficientismo, tecnocrazia, europeismo, laicismo e questo nello spirito della formazione del gruppetto dei tecnocrati al Senato), ma si dividevano sulla opportunità dei luoghi. I primi sostenitori erano per Torino o Cuneo: Donat Cattin, alla fine, per Roma, sede neutra. Agnelli ha cominciato a fare qualche cosa, raccogliendo gente, facendo cultura, abbozzando politica, un po’ operando a lato del Partito, un po’ dentro. Mi pare si muova in modo leale. Non essendo, come altri, uno che è venuto all’ultimo minuto ed ha bisogno di tutto, fa dei movimenti graduali, tiene contatti con la gente, si interessa delle cose. Le contraddizioni e resistenze sono venute da parte di Donat Cattin a mezzo Bodrato, ma, come ho detto, non sono radicali, ma di opportunità. La D.C. si riconosce appunto nella mancanza di resistenza vera a queste cose, nella mancanza, per così dire, di compattezza e durezza ideologica. E qui del resto la base del suo elettorato. Nella confusione della formazione delle liste non credo ci sia stato un vero accordo tra Agnelli e D.C., per fare qualche cosa di specifico. La D.C. ha dischiuso la sua cospicua provvista di voti, perché Agnelli desse in cambio una professionalità elettoralmente utile ed una certa animazione di partito, appunto quel senso di novità di cui il Paese mostrava di avere bisogno, anche se pareva ben lungi dall’apparirne soddisfatto per la presenza di Umberto Agnelli.