(COMM. STRAGI, II 127-130, NUMERAZIONE TEMATICA 7)
L’accordo sull’ultimo governo è stato assai travagliato, com’è comprensibile. Esso nasce dallo stato di necessità creato sulla scia delle affermazioni di La Malfa, dal Partito Comunista, quando ha dichiarato superato l’accordo a sei e richiesto una diretta ed impegnata partecipazione comunista (insieme ad altri partiti), per fronteggiare l’emergenza. A determinare questa situazione aveva contribuito, con l’aggravarsi obiettivo della situazione, la radunata a Roma dei metalmeccanici nel segno della sostituzione del Governo Andreotti. I comunisti, del resto, non avevano impegni di sorta circa la durata temporale dell’accordo a sei, benché si sperasse di protrarla fino alle elezioni europee allora prevedute per il 78. Per i democristiani, nella generalità dei casi, fu una sgradita sorpresa, perché metteva in discussione un equilibrio che il Paese, dopo sforzi, aveva acquisito ed anche gli Americani avevano accettato o tollerato. Ma, una volta chiara la fermezza con la quale il PCI chiedeva, con altri, un cambiamento, ci si dové mettere al lavoro. La reazione dei gruppi fu semplicemente disastrosa ed occorse una durata eccezionalmente lunga di crisi, circa 60 giorni, [per] cominciare ad avere un controllo minimo della situazione e cioè un dibattito duro, ma civile, non caratterizzato cioè dalla minaccia immediata di voto negativo in aula. A questo fine, a parte l’opera di persuasione svolta da alcuni democristiani, si cercò di far valere una ragione positiva e cioè la continuazione, in forma aggiornata, di un accordo che si era rivelato in complesso fecondo e senza l’ipoteca di un accordo politico generale tra PCI e D.C., al quale la parte democristiana (ma anche quella comunista) apparivano impreparate. Sul piano politico formale, a parte il programma che riprende e aggiorna quello di luglio, dopo moltissime incertezze, la Direzione D.C. da un lato, l’On. Berlinguer dall’altro (egli aveva intanto abbandonato l’idea di un Governo di emergenza) erano convenuti nel ritenere possibile una maggioranza programmatico-parlamentare, che avrebbe tradotto in accettazioni le manifestazioni di non sfiducia del Governo precedente.
La grande zuffa questa volta è avvenuta nei gruppi parlamentari riuniti ed è stata piuttosto confusa, vantando ciascun gruppo preminenza sull’altro. La verità era una sostanziale parità, che consentì di raggiungere l’accordo per una ragione politica, per il bisogno di una tregua, in qualche caso, per desiderio di potere, talaltra ancora per la mancanza di un’alternativa praticabile e cioè o le elezioni con le enormi incognite che comportavano o la formazione di un governo laico, appoggiato dai comunisti, il quale, o come governo elettorale o come governo stabile, benché transitorio, avrebbe potuto costituire qualche cosa di nuovo, capace di sottrarre gl’italiani alla presa costante della D.C. Questi vari motivi, in questo o in quello più o meno accentuati, fecero evolvere i gruppi verso posizioni critiche sì, ma più tranquille e raziocinanti. Ora tutto si gioca sull’esperienza in corso. Quanto alle garanzie internazionali ci si è rifatti alle due mozioni di politica estera votate tempo prima (e con disappunto degli Americani) alla Camera ed al Senato. L’accettazione della Nato, dell’Europa, della distensione e cose prive di significato discriminante.
Per quanto riguarda il futuro, fino al punto in cui sono informato, né il PCI né altri partiti hanno preso impegni al di là dell’elezione del Presidente; ma i comunisti non hanno nascosto che essi non rinunciano a fare un passo avanti per l’ingresso nel Governo, che è questa volta mancato. I democristiani si dicono fermi nel non andare più avanti del punto in cui sono. Gli altri partiti ambigui. Queste essendo le posizioni di fondo, non è detto che l’esperienza non faccia evolvere o gli uni o gli altri in direzione diversa da quella prevista. Quindi io non mi stupirei, se l’accordo continuasse con qualche variante nominalistica e qualche serio aggiornamento programmatico (auguriamoci in senso migliorativo). Posso essere smentito dai fatti, ma non vedo come inevitabile lo scontro al termine di questa esperienza.
I socialisti profitteranno della riacquistata mobilità per una politica con preminenti accentuazioni europee. Della D.C., come è noto, si può dire tutto ed il contrario di tutto, essendo essa dominata dalla logica del potere e dall’esigenza di conservarlo, ridotto magari, ma consistente. La sua scelta, a mio avviso, qualunque cosa essa dichiari, non sarà ideologica o politica, ma dettata dalla consapevolezza di poter raggiungere un buon accordo di coesistenza coi comunisti, che non sgretoli le sue posizioni elettorali, e le dia quel tanto di potere (ovviamente condiviso) di cui essa ha bisogno. Se si realizzeranno queste condizioni, ho l’impressione che l’accordo durerà.
(COMM. MORO, 145-146; COMM. STRAGI, II 283-288, NUMERAZIONE TEMATICA 7)
(Mi pare, se non sbaglio, di avere scritto un pezzo tutto su questo tema e che vorrei controllare. Comunque certo c’è da aggiungere delle cose e qui tento di farlo).
L’accordo da cui è nato il Governo nasce da esigenze e richieste del partito comunista e di quello repubblicano; più debolmente dal Partito Socialista, tutto impegnato nel suo Congresso. Il Partito Comunista era frustrato per il lento adempimento dell’accordo di luglio, per il malumore della base, stanca di sentir richiedere sacrifici, per le difficoltà dei Sindacati, per la sensazione di contare poco e di essere tenuto per chissà quanto fuori dalla porta, mentre doveva affrontare grosse difficoltà. Un grosso colpo è stato la riunione dei metalmeccanici. Da qui la brusca denuncia della non sfiducia e la richiesta, attenuata dai socialisti, di un governo di emergenza. Le difficoltà insorte per la D.C., trovatasi largamente impreparata, sono state enormi. Da tutte le parti minacce di voto contrario in aula, larghe aggregazioni di avversari dichiarati della nuova formula richiesta, fermento in forme inusitate nei gruppi parlamentari. Si è deciso di lasciar parlare, di non strozzare, di persuadere, sempre però restando esclusa la coalizione politica che appariva improponibile. Io pensavo ad un ampio dibattito nei gruppi, ed in Consiglio Nazionale. Altri ha preferito la sede più ristretta della Direzione sempre dopo la riunione dei gruppi. Così, passo passo, persuadendo ed incoraggiando, si è delineata la formula che è poi sfociata nella maggioranza programmatico parlamentare. Essa in sé dice poco, ma salva la faccia ai comunisti che volevano una maggioranza chiara e contrattata ed alla D.C. che non accettava l’alleanza politica generale. Lo scontro dei gruppi è stato durissimo e poco chiaro; ma si è poi relativamente placato, pur tra residue polemiche, ed il Governo è stato costituito.
(Tener presente il modo di costituzione del Governo, già trattato, ed il caso Andreatta). Naturalmente bisogna riconoscere che si tratta di una tregua che giunge solo fino all’elezione del Presidente della Repubblica, mentre nessuno è in grado di dire che cosa avverrà dopo. Intanto però un momento di reale emergenza trova uno strumento relativamente valido.
Ritengo necessario, malgrado la delicatezza del tema, fare cenno a tre miei incontri informativi con l’Ambasciatore americano Gardner, al quale ho esposto con molta chiarezza la situazione, la richiesta pervenuta, le condizioni di emergenza del Paese, la esclusione di una alleanza politica generale, la opportunità per non far stagnare la situazione, di progredire dalla non opposizione all’adesione. Era un passo decisamente più lungo, ma appariva giustificato dalle circostanze.
L’Ambasciatore non ha dato consensi né pronunciato anatemi e si è limitato a prendere atto delle mie affermazioni e delle previsioni di tempi e di sviluppi. Della politica estera non si è parlato formalmente in quella occasione, ma in un’altra precedente, quando, successivamente agli accordi di luglio, si è fatto riferimento con disappunto da parte americana del fatto che successivamente all’accordo, che escludeva intenzionalmente la politica estera, erano state votate nelle due Camere delle mozioni le quali avevano, per così dire, colmato la lacuna, senza che la Direzione del Partito ne fosse investita. Inoltre, in termini generali e non con riferimento ai possibili accordi, si lamentava da parte americana che l’adesione comunista alla Nato ed all’Europa non fosse accompagnata da una qualche misura di comprensione e di adesione per quanto riguarda la politica estera al livello mondiale. A questa spinta credo si ricolleghi un punto della mozione conclusiva dei Gruppi, nella quale si chiede armonia tra politica estera del governo e politica estera dei gruppi che lo compongono. Di questo non si è più parlato, salvo che non sia avvenuto nel dibattito parlamentare. Per quello che ne so, gl’impegni di politica estera del Partito Comunista restano l’adesione alla Nato e all’Europa, la distensione ecc., come previsto nelle mozioni; ma altro, che io sappia, la D.C. non è riuscita ad aggiungere.
Come dicevo innanzi, tutte le previsioni si fermano all’elezione del Presidente della Repubblica. L’On. Berlinguer mi ha detto di non poter assumere nessun impegno per il dopo ed io lealmente ne ho informato i gruppi. Analoga riserva riguarda tutti gli altri gruppi parlamentari. Si rifanno all’emergenza e s’impegnano finché dura l’emergenza. Dopo, tutti ritengono di avere piena libertà di movimento con maggior o minor fortuna, ma con piena capacità di scelta. Naturalmente bisogna vedere le intese o le disarmonie che maturano nei fatti, al qual fine il tempo attuale di osservazione è troppo breve e troppo particolare. Mi pare di poter dire che la D.C. non ha preso il Partito Comunista né viceversa. Tutta la situazione è aperta.
Si può solo dire che il PCI ha una forza considerevole che mostra di sapere, sia pure con qualche errore, utilizzare e che il Partito Socialista muove verso traguardi europei, non in collisione ma nemmeno in collegamento rigido con il Partito Comunista.