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Banane “etiche” col bollino blu? Lo crede possibile “Gdoweek”, settimanale per operatori della grande distribuzione italiana che a novembre ha assegnato a Chiquita l’Ethic Award per la categoria “Personale e processi interni”. Il premio -organizzato con Kpmg Consulting Business Advisory Services (nota società di consulenza e revisione contabile)- è andato alla multinazionale di Cincinnati per la responsabilità d’impresa: “Per il forte impegno di ‘grande rispetto’ adoperato a livello mondiale per superare il passato, attraverso diverse modifiche strutturali”, con particolare riferimento alla certificazione Sa 8000 ricevuta da sue piantagioni in Costa Rica, Colombia e Panama.
Nella giuria del premio anche tre “volti noti” del commercio equo: Paolo Brichetti, direttore di Ctm Altromercato, Paolo Pastore, direttore di Transfair Italia, e Teresa Pecchini per l’Associazione Botteghe del mondo. A loro chiediamo spiegazioni su un premio che ci ha lasciati molto perplessi. E in effetti è stato negativo il voto dei primi due: “A fronte di un processo in atto da parte di Chiquita” conferma Brichetti “permangono grossi problemi e discrepanze rispetto a quanto l’azienda comunica, come confermano soprattutto i sindacati locali”. E ci si interroga sul senso di premi simili. Fa eco Paolo Pastore: “Il nostro giudizio su Chiquita resta sospeso. Vogliamo vedere se l’azienda andrà avanti o se si tratta soltanto di una boutade pubblicitaria”. Teresa Pecchini invece ha deciso di premiare l’iniziativa: “Tra i candidati” dice “il progetto di Chiquita era il migliore. È importante riconoscere lo sforzo che un colosso del genere sta facendo”.
Ma vediamo come la pensa Alistair Smith, coordinatore di Banana Link, organizzazione britannica tra le più impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori bananieri, e parte del coordinamento europeo Euroban. “Firmare un accordo -dice Smith- è un primo passo, ma non basta”.
Quindi il tuo giudizio sul premio a Chiquita è negativo?
“Chiquita è stata premiata da poco anche nel Regno Unito, ma dev’essere chiaro a tutti che questa non è una compagnia angelica. Nonostante sia la più sindacalizzata nel suo settore e tra quelle che hanno fatto qualche limitato sforzo per migliorare l’impatto ambientale delle piantagioni, c’è ancora un lavoro enorme da fare perché Chiquita possa essere considerata una compagnia etica. Chiquita dovrebbe fare attenzione a dare fiato alle proprie trombe, finché chi lavora per lei in Guatemala, Nicaragua e Costa Rica vivrà in condizioni così povere e riceverà un salario tanto basso (meno di un euro al giorno in Nicaragua)”.
L’azienda ha anche firmato un accordo con Colsiba, il coordinamento dei sindacati bananieri latinoamericani.
“Chiquita può giustamente andar fiera dei passi fatti e di aver firmato l’accordo sui diritti dei lavoratori con i sindacati latinoamericani e con il sindacato internazionale Iuf. Uno sforzo del genere è molto più importante di tanti altri, è un modello che altre aziende dovrebbero imitare con urgenza se vogliono evitare continue denunce pubbliche qui al Nord, cioè nei loro mercati chiave. Ma firmare una bozza d’accordo è solo un primo passo: quel che importa davvero è poi mettere in pratica le belle parole. E questo può accadere soltanto se i sindacati locali sono abbastanza forti per dialogare alla pari con Chiquita”.
E per quanto riguarda la Sa 8000?
“Non abbiamo fiducia nelle società private di certificazione che si occupano della Sa 8000 per le grandi compagnie bananiere. Finché società come Sgs, Bvqi e Intertek marginalizzeranno le opinioni dei sindacati che operano nelle zone dove vengono effettuate le verifiche, le compagnie bananiere non saranno in grado di ‘vendere’ le certificazioni al vero consumatore critico. Su questo fronte stiamo lavorando duramente anche per educare i buyer dei supermercati. Se i rivenditori chiedessero seriamente il rispetto delle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) da parte dei propri fornitori, le certificazioni private sarebbero inutili. Ci opponiamo alla strisciante privatizzazione di quelli che dovrebbero essere standard pubblici. L’Ilo esiste ancora: dovremmo cercare di migliorarne l’efficienza piuttosto che screditare l’organizzazione dicendo che non funziona. L’Ilo sarà sempre meno in grado di funzionare se la società civile e le aziende continueranno a insistere che gli standard di iniziativa privata sono l’unica via da percorrere”.
Un altro fronte è quello ambientale. Anche qui Chiquita ha ottenuto la “certificazione” verde dell’ong Rainforest Alliance.
“Chiquita è molto più avanti degli altri giganti del settore nell’organizzazione di relazioni strutturate con i sindacati, ma come in quest’ambito permangono troppi problemi e ingiustizie economiche perché possa ricevere un premio, lo stesso vale per l’impatto ambientale. È chiaro che la certificazione di Rainforest Alliance è meglio che niente, ma l’uso di pesticidi sta ancora uccidendo le persone e danneggiando l’ambiente nelle piantagioni di Chiquita e nelle altre piantagioni bananiere.
Rainforest Alliance spinge l’azienda a migliorare, ma esistono limiti oggettivi per una monocoltura che dipende in modo così massiccio dai prodotti chimici”.
Esistono altre multinazionali bananiere interessate a una maggiore sostenibilità?
“Dole è nel board di Social Accountability International (Sai, l’organizzazione da cui la Sa 8000 dipende, ndr), ma ripeto, serve un coinvolgimento più serio dei sindacati prima che i lavoratori possano trarre un qualsiasi beneficio pratico dalle certificazioni rilasciate alle aziende agricole per le quali lavorano”.
Chi è, invece, sulla lista nera?
“Del Monte e Noboa, che credono di potere restare nel commercio bananiero senza cambiare nulla delle condizioni disumane in cui tengono la maggior parte dei loro lavoratori”.
Da tempo si parla di multinazionali interessate al commercio equo, di una loro possibile iscrizione ai registri di Flo, l’organismo di certificazione internazionale del fair trade. Ma una multinazionale equa è possibile?
“Alcuni importatori equi sono già multinazionali in senso stretto, perché hanno sedi in diversi Paesi, per cui il dibattito è un po’ difficile. Dole inoltre è coinvolta nel trasporto di banane biologiche e certificate fair trade dal Perù. Il rischio è che queste compagnie, inclusi i supermercati attraverso cui vendono la frutta, usino le banane del commercio equo solo come uno specchietto, per coprire il modo in cui trattano il 99% dei loro fornitori nel mondo”.
Come si devono muovere i consumatori?
“Devono pretendere dai supermercati trasparenza lungo tutta la catena di approvvigionamento e prezzi giusti per i fornitori, così che anche i lavoratori delle piantagioni possano guadagnare salari dignitosi”.
(da: Altreconomia)
Purtroppo fin che queste resteranno relegate sui blog o su stampa alternativa non credo ci sarà mai una pressione su queste multinazionali tale da spingerle a rispettare i diritti umani. :(
Sono estremamente pratica e molto poco raffinata nel pensiero.
Direi grossolana ma mi metto nei panni di Rosa, casalinga che decide di farsi di banane, e con lei mi reco al solito supermercato sotto casa.
Ecco, adesso mi dite esattamente cosa dovremmo fare io e la spaurita signora Rosa di fronte al banco frutta del nostro supermercato?
E poi mi volete anche dire perchè la Chiquita, che a questo punto appare la meno peggio, non deve essere premiata per i suoi sforzi?
Non ho una grande simpatia per l’ineluttabilità dei meccanismi che regolano l’economia mondiale, ma siccome è impensabile sottrarcisi di punto in bianco, mi pare che la volontà di cambiare sia già un primo passo in tal senso.
Il secondo passo sarebbe quello di sensibilizzare anche la signora Rosa alle condizioni di vita dei bananieri, magari se al TG5 invece di Gusto mandassero in onda servizi sulla provenienza e la lavorazione dei prodotti alimentari, la sig. Rosa guarderebbe le banane con occhio diverso.
va bene, ho capito, delle banane della signora Rosa non frega a nessuno.
poi non lamentiamoci se la signora Rosa vota berlusconi che almeno lui le manda a casa un depilantes dove le spiega come curarsi.
In effetti lo sforzo va premiato da qualche parte si deve pure partire. Speriamo la signora Rosa voti ancora per S. così l’anno prossimo mi manda il libretto per insegnarmi ad allaciare le scarpe, non vorrai usare i soldi del libercolo per finanziare qualche asilo.
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