A occhi chiusi

Tanto per abbaiareIntegralisti israeliani e integralisti palestinesi sono ormai allo scontro frontale. Gli esponenti intermedi sono stati spazzati via da un pezzo. Due popoli disperati, profondamente cambiati dalla paura e dal rancore

Israele/Palestina. Non c’è un erede di Arafat, fra i palestinesi “laici”, e solo un qualche risultato ottenuto per vie pacifiche avrebbe potuto concedere all’Olp il tempo necessario per la crescita di un gruppo dirigente in grado di contrastare gli islamisti. La destra israeliana ha deciso di non concedere questo tempo. E questo, forse, non tanto per oltranzismo preconcetto quanto perché sottoposta essa stessa alla pressione crescente dei propri integralisti. Integralisti, anche in questo caso, vuol dire semplicemente emarginati. La società israeliana non è più una società di ceti medi economicamente e culturalmente coesi ma, come in tutto il Medio Oriente, consiste ormai di due strati diversissimi fra loro, che prendono identità apparentemente da tematiche religiose ma in realtà da ragioni strutturali. Allo strato più nuovo e più povero della società israeliana la destra e Sharon hanno dovuto gettare un pezzo di carne dopo l’altro. Infine, non potendola controllare, hanno deciso di far precipitare a freddo la crisi – il che è avvenuto con la famosa provocazione di Sharon alla Spianata – per governarne almeno i tempi e gestirla, per quanto possibile, chirurgicamente.
L’elemento drammatico dello scenario, nella mente di Sharon (che è un ebreo del dopo-Auschwitz, non un politico europeo o americano) e in generale di tutta l’elite israeliana, è l’incertezza sui termini della superiorità convenzionale di Israele. Già nel 73 (quando a un certo punto gli americani dovettero congelare il conflitto) essa era molto meno indiscussa di quanto si volesse far credere. Oggigiorno, nessuno sa se in definitiva essa esista ancora. Lo stato della tecnica militare, dall’altro lato del fronte, non è più quello di prima. Gli armamenti moderni, attraverso l’Iran e forniti dalla Cina, sono ormai disponibili per tutti. Se oggi Israele, come cultura militare, vale dieci, gli altri sono arrivati almeno a quattro, probabilmente a cinque e forse anche a sei.


Mentre, fra Israele e arabi, diminuisce la disparità militare, la distanza ideologica aumenta sempre più. I Nasser e gli Arafat erano dei laici, dei progressisti riformatori. E dunque, in un mondo possibile, dei possibili interlocutori. I leader arabi della prossima generazione, e in parte già di questa (chi succederà alla famiglia saudita? Chi emergerà in Iraq alla fine della crisi?) saranno prima islamici e poi qualunque altra cosa. Nella prossima fase, accesamente “popolare”, essi non avranno alcun interesse ad alcun dialogo, anzi useranno la questione palestinese-israeliana come loro specifico mito di fondazione.
In questa situazione drammaticissima, in cui l’esistenza dello Stato di Israele torna ad essere in pericolo esattamente come nel ’48, il gruppo dirigente israeliano si muove come può, senza illusioni ma con determinazione: nessuno può dire oggi, e nemmeno lo stesso Sharon, fino a che punto questa determinazione possa spingersi nella prossima crisi.
Questo gruppo dirigente è molto più lucido del paese che l’ha eletto, e infinitamente più consapevole della posta in gioco. La percezione che gli israeliani hanno del problema palestinese, ci sembra di capire da qui, è molto più “sociale”, da ceto medio occidentale rispetto a una massa di “extracomunitari”, che geopolitica. Per questo, hanno gettato via senza accorgersene gli enormi risultati conseguiti dai governi di sinistra, che erano sostanzialmente riusciti – con pochissime concessioni – a implementare Arafat e tutta la dirigenza palestinese “laica” nella conservazione di Israele. Il mandato popolare a chiudere ogni dialogo e ad arroccarsi a occhi chiusi è stato senza remore, ingenuo e fiducioso. E anche questa discrepanza fra la superficialità dell’opinione pubblica e la drammatica lucidità dell’elite è una novità per Israele, e non mancherà di indurre trasformazioni ulteriori nella sua identità profonda, nel trasferire ulteriormente la sua cultura nel Medio Oriente e fuori dall’Europa.
Si annunciano tempi gravissimi, per gli amici degli ebrei – per tutte, vale a dire, le persone civili europee. Fino a un paio d’anni fa, il pericolo da cui esse dovevano guardare i loro fratelli d’Israele era quello di commettere ingiustizia verso altri esseri umani. Oggi, è quello di perdere il loro Stato.

• Ah, se Cristoforo Colombo invece dell’America avesse scoperto Napoli.

Uno sconosciuto patriota wrote (ma perché proprio a me?):

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Pasquale wrote:

Non ho visto il film di Mel Gibson, e non so se andrò a vederlo, ma trovo interessante la risposta che Corrado Augias ha dato su Repubblica, là dove elenca le religioni che, oltre a quella Cristiana, hanno assunto Gesù come uno dei loro simboli. Nell’elenco, a parer mio, potrebbero trovare posto anche quei laici (agnostici, o, addirittura, atei) che vedono in Cristo il simbolo della Ragione, da sempre perseguitata e messa in croce dall’oscurantismo. Gesù, infatti, per quei laici, è il primo uomo condannato, torturato ed ucciso per le sue idee. Idee di Giustizia, di Fratellanza, di Uguaglianza, che dovevano essere terrificanti per i berlusconidi dell’epoca, che sia a Roma che in Palestina vivevano nel culto della società divisa in padroni, servi e schiavi. Non erano molto dissimili da quelli attuali che ancor oggi, a Roma, in Palestina e altrove, vedono un comunista pericoloso in chiunque professi con convinzione idee di Giustizia e di Uguaglianza. (Ma non ditelo al Cavaliere: costui, per fare un dispetto ai comunisti che, anche se agnotici o atei, hanno Gesù in simpatia e lo considerano un compagno crocefisso, appunto, per le sue idee, potrebbe far cancellate dal calendario le feste di Natale e Pasqua).
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