Ogni volta che l’ho sentita l’ho sempre classificata come una tipica espressione di snobismo: “I film visti in lingua originale sono tutta un’altra cosa”. Io, però, i film in madrelingua non potevo permettermeli. E non a causa di problemi economici: la realtà è che sono stato svezzato in inglese dall’unica professoressa al mondo indiscutibilmente certa che “The” si pronunciasse “Zé”. E che un giorno, dopo averci fatto vedere un disegno in cui una ragazzina, Mary, prendeva amorevolmente per mano il fidanzatino Dick, propose una standing ovation in mio onore per essere riuscito a comporre una descrizione – a suo dire – perfetta: “Mary takes Dick with her hand”. Si chiamava Rosy qualcosa. Se qualcuno di voi dovesse incontrarla, vi prego, spiegatele che quel disegno, che tanto si presta a beceri doppi sensi, va bruciato. Se più tardi imparai l’inglese lo devo alla dabbenaggine dei responsabili della programmazione delle reti Rai e Mediaset: dal momento che di tutte le serie televisive che amavano venivano trascurate le stagioni successive alla seconda o alla terza (trasmesse comunque poco, male, e in genere a tarda ora), iniziai ad ordinarle in videocassetta e in Dvd dagli Stati Uniti. Ora, dopo anni, posso permettermi di dirlo: i film visti in lingua originale sono tutta un’altra cosa. Non equivocate: non sono diventato snob. È solo che l’assunto secondo il quale i doppiatori italiani sarebbero i migliori del mondo non è altro che una grande scemenza: siamo gli unici, assieme a francesi, tedeschi e spagnoli, a doppiare i film. È come vincere a Giochi senza frontiere contro San Marino, Montecarlo e Città del Vaticano. Nel resto del mondo regnano l’inglese o i sottotitoli. Escluso Giancarlo Giannini (che resta sublime in genere e in particolare come voce di Al Pacino in “Scent of a Woman“) il nostrano clan dei doppiatori è stato capace, negli anni, di renderci assuefatti all’ignoranza. La nostra e la loro. Nella versione italiana di “Via col vento“, ambientato 71 anni dopo l’inizio della deportazione degli schiavi, le persone di colore parlavano ancora all’infinito e dicevano “Zì, badrone”. Nel lieto fine de “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, girato nel 1946 (81 anni dopo la fine della guerra di secessione), entra in scena Annie, l’ex domestica di Jimmy Stewart, e ad un personaggio viene messa in bocca la frase “Guardate, c’è anche la negra!”. Nel corso del più recente e decisamente meno nobile “Scemo e + scemo“, Jeff Daniels, probabilmente in omaggio ad avi padani, grida: “pirla!”. Nel primo episodio di “Guerre Stellari” il padre di Luke Skywalker risultava “ucciso durante la guerra dei Quoti”: i doppiatori italiani del film ritennero di poter inventare i “Quoti” in sostituzione della parola “clones”, cloni. Guardare un film ed essere costretti a subire queste ed altre nefandezze è come chiedere a qualcuno di raccontarci una barzelletta che non ha capito. Nelle ultime puntate di Ally Mc Beal dialoghisti, traduttori e doppiatori han dato il meglio di sé: due avvocati sorridono di un vecchio membro della giuria piuttosto strano e dalla folta capigliatura. Uno dice all’altro, dandogli di gomito: «Guarda, è arrivato anche il cugino “coso”». Giuro: ho sentito distintamente dire “cugino coso”. “It”, diamine, “Cugino It”! Probabilmente nella triste vita dei piccoli doppiatori non c’è mai stato posto per la Famiglia Addams: l’infanzia è trascorsa mentre si esercitavano a doppiarsi davanti allo specchio. Lì, davvero, erano i migliori del mondo.
A costo di apparire snob…
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