Venerdì santo

Il venerdì santo che porta sciagura e cattivo tempo figura nella mitologia che alcuni vecchi tramandano, e alla quale da ieri probabilmente anche Papa Wojtyla dà qualche credito. La sua immagine che, sul finire della Via Crucis in mondovisione, si aggrappa alla croce per sorreggersi, descrive il lento calvario di un uomo anziano a cui è stato chiesto di rinunciare alla bocciofila, alle panchine del parco, al mangime per i piccioni, ad una confortevole casa di riposo in mezzo al verde in cambio dell’opportunità di indossare un cappello buffo. Eppure, per quanto lo si possa rendere oggetto di bonari sberleffi, la tenacia di quest’uomo che continua ad affrontare da perdente continui round contro la malattia, senza lasciarsi tentare dal lancio della spugna, non può non muovere ad un minimo di ammirazione. Fino a qualche anno fa, almeno, la figura del Papa rappresentava il megafono della voce di Dio in terra: ormai neanche Dio è più sicuro di aver bofonchiato esattamente ciò che Wojtyla poi ripete. Resta comunque sua l’idea più geniale dell’ultima Via Crucis: fare interpretare le quattordici stazioni ad altrettanti giornalisti. Da registrare un minimo di delusione nei fedeli alla notizia che la scena della crocifissione non avrebbe visto come protagonista Emilio Fede. Forse, comunque, a giudicare dalle offese rese a Dio e all’Uomo in questo Venerdì Santo, i vecchi hanno ragione. E se a Gesù Cristo fosse consentito come a tutti di lasciare un testamento alla morte, probabilmente reciterebbe: «Stavolta mica lo so se ho il coraggio di risorgere. Complimenti ad Ariel Sharon che, unico nella storia tra tanti che ci hanno provato, mi ha fatto vergognare di essere ebreo».

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