Di Pietro, la storia vera. 1

Il 13 ottobre sarà nelle librerie «Di Pietro, la vera storia» di Filippo Facci (Mondadori, 21 euro), una biografia decisamente non autorizzata che per 528 pagine scava in un passato che lo stesso Di Pietro tende misteriosamente a dissimulare: dai pascoli molisani all’emigrazione in Germania, dalla sorveglianza di armamenti della Nato a una laurea conseguita in soli trentadue mesi, dal ruolo di agente dell’anti-terrorismo a quello di viaggiatore in scenari da spionaggio internazionale, dalla stretta amicizia con una combriccola di potenti al suo averli passati per le manette uno per uno. Poco è stato raccontato, in realtà, anche di un presente che il leader dell’Italia dei Valori lascia regolarmente nell’ombra: il familismo, il partito fondato sulla cieca obbedienza, l’incredibile disinvoltura nell’incassare e gestire il finanziamento pubblico, gli accordi sottobanco col «regime», lo spettacolare trasformismo, la doppiezza tra politica e impolitica. Un viaggio che ripercorre anche gli anni di Mani pulite, quando Di Pietro apparve come l’uomo della provvidenza a più del novanta per cento degli italiani, e coincise con il cambio di stagione più devastante dal Dopoguerra.

Detto questo, eccovi il Preludio, una specie di introduzione che sta ovviamente all’inizio del libro, preceduta da un lungo esergo. E’ una cosa un po’ strana. Occhio che mancano le note, oppure troverete qua e là qualche numerino sperso. Con altre parti del libro avrò comunque ad ammorbarvi.

«La Guardia di Finanza venne a casa mia prima delle sette del mattino, svegliarono me e la mia famiglia. Gli agenti perquisirono il mio appartamento e sbirciarono persino tra i disegni dei miei bambini. Non trovarono nulla. Dopo i rituali in caserma eccomi a San Vittore».

Quanto vi restò?

«Ventun giorni, poi passai poco più di un mese agli arresti domiciliari»

Chi l’interrogò?

«Dapprima il gip Maurizio Grigo. Gli dissi che la pratica di cui parlava, per quanto ne sapessi, era stata regolare»

E poi?

«Alle 10 del mattino dopo, i miei difensori mi dissero che di lì a pochi minuti sarei stato interrogato dal dottor Di Pietro. Mi avvisarono che sarebbe stato un interrogatorio durissimo, la cui asprezza e brutalità non potevo neanche immaginare, mi dissero di prepararmi al peggio. «Lei deve sforzarsi di dire qualcosa, confessi, faccia dei nomi – mi avvertirono i legali – sennò qui non la tiriamo più fuori. Lei non interessa a Di Pietro in quanto Kraus, ma perché è una pedina che può tirarne fuori altre nel domino di Mani pulite». Ma io non avevo niente da dire. Dovevo forse inventare?»

Ma scusi, chi le parlò così? Gli avvocati?

«Sì».

E come si chiamavano?

«Federico Stella».

Se non sono troppo indiscreto, perché scelse Federico Stella?

«Stella era il legale dell’Assolombarda e in particolare del presidente Ottorino Beltrami. Dapprima fui scettico, poi acconsentii anche se successivamente preferii cambiare, anche perché Stella continuò a rimproverarmi di non aver collaborato e di non aver fatto i nomi. Ma torno a dire: dovevo inventarmeli?»

Continui.

«L’interrogatorio ebbe luogo poco più tardi, al primo piano di San Vittore. Di Pietro entrò, salutò i miei avvocati e sbrigativamente anche me. Mi lesse la dichiarazione di Molino e mi disse: «Lei cos’ha da dire?». Risposi che la pratica era regolare e cercai di spiegare perché. Lui m’interruppe: «Basta, basta. Non mi racconti le cose in modo professorale, io non non voglio sapere le cose belle, io voglio sapere le cose brutte, voglio sapere assolutamente quali sono le tangenti che sono state pagate. Vada nella saletta coi suoi avvocati – disse – e incominci a scrivere, io voglio sapere tutte le aziende che hanno pagato e lei mi deve fare i nomi, io non voglio filosofie, voglio nomi, nomi cognomi: chi, come, dove e perché». Entrava e usciva dalla stanza, interrogava contemporaneamente altre tre persone e ogni tanto tornava: «Fuori i nomi, lei ci deve dare le chiavi della siderurgia».

E lei?

«Io replicai: |“Ma scusi, io sono stato arrestato per via di una pratica, parliamo di questa pratica”. E lui: “No, io voglio parlare della siderurgia, lei mi deve dire tutte le aziende siderurgiche della Lombardia che hanno pagato tangenti. Voglio i nomi e se lei non me li dice resterà qui dentro tanti di quei mesi che le farò perdere io qualsiasi…” adesso non ricordo il termine preciso, insomma ogni velleità. Questa tortura è durata sei ore, ma senza tempi morti sarebbe durata mezz’ora».

E tornò in cella.

«Da inquisito non rividi più Di Pietro. Tempo dopo il pm Paolo Ielo, persona di grande correttezza, m’interrogò quel tanto che bastava per capire che non c’entravo nulla. E mi liberò».

E poi?

«Per più di un anno nulla. Niente interrogatori, niente confronti, niente accertamenti patrimoniali. Finché all’inizio del 1995 apprendo che la Procura di Milano ha inviato il fascicolo a Roma per competenza».

Come al solito. E a chi?

«Al pm Antonino Vinci».

E lui che cosa le disse?

«Nulla, non mi ricevette mai, né si preoccupò d’incontrarmi. Dopo un po’ chiese l’archiviazione. La sentenza diceva: «In sostanza nessun addebito può esser mosso al signor Kraus [e a Vittorio Barattieri, nda] neanche sotto il profilo formale».

Fine della storia.

«Si fa per dire. Il carcere è il carcere. Ho un figlio che essendo molto piccolo non ne risentì, ma mia figlia di otto anni, insomma… ha avuto dei problemi».

Nel senso che è rimasta turbata?

«Non è semplice da spiegare… per molto tempo continuò a disegnarmi… a disegnare il suo papà dietro le sbarre di una cella».

Riassunto. Un pubblico ministero saltabecca da un interrogatorio all’altro dicendo «parla o stai dentro» a uno e più venturi innocenti, spalleggiato da avvocati che non credono neppure ai loro clienti. Tutto questo basandosi sulla sola parola di un millantatore la cui parola non viene neanche sottoposta a verifiche.

(Colloquio dell’autore con Daniel Kraus, direttore generale dell’Assolombarda, arrestato il 1° ottobre 1993 e prosciolto il 24 febbraio 1996)

***

Preludio

La riconoscenza è una responsabilità che alcuni non sanno reggere e che presto trasformeranno in rancore, talvolta in furore. L’ingrato spesso corrisponde a un archetipo ben delineato: il suo profilo è quello del classico anaffettivo che a una mancanza di investimenti relazionali fa tuttavia coincidere una grande velocità nel saper decifrare il prossimo; è un investigatore nato, tipicamente. Non di rado è un personaggio che mischia istinto e furbizia nel cogliere l’essenziale altrui (la parte che gli interessa, almeno) e che in genere non perde un minuto del proprio tempo per districare il groviglio dei malanimi accumulati. Crisi di coscienza: non pervenute. Disponibilità all’autoanalisi: zero, perché la vita corre. È questo, Di Pietro? Nel suo caso c’è qualcosa che va oltre.

Quando Antonio Di Pietro aveva 11 anni, per tutto il durissimo periodo del seminario a Termoli, sin dal primo minuto fu affiancato da colui che fu un compagno ma soprattutto un vero amico del cuore, a quanto risulta l’unico della sua vita: Pasqualino Cianci. Era un coetaneo di Tavenna, vicino a Termoli: e non ci fu ora o giornata o stagione che i due non divisero per quei tre lunghi anni adolescenziali. Era un confidente, un consigliere, un complice inseparabile anche nei periodi estivi passati alla masseria. Pasqualino, figlio di artigiani, imparò a pascolare le pecore, a raccogliere le spighe, a lavorare la terra, tutte le durezze e le soavità della stagione più bella della campagna e spesso della giovinezza. È lui, intervistato, ad aver descritto Tonino come un contadino nato e la sua naturalezza anche solo nel raccogliere un frutto, tagliare l’erba con la falce, fermare una pecora in

fuga tirandole un sasso. I due seguivano le greggi e si isolavano per giornate intere; fosse stato per loro, ha raccontato, avrebbero vissuto in quei campi per tutta la vita. Invece, dopo il seminario, emigrerà negli Stati Uniti e si laureerà in medicina prima di sposare una paesana e tornare a vivere proprio a Montenero, di fronte alla masseria dell’amico frattanto emigrato al Nord. Anche durante i primi mesi di Mani pulite, con Tonino in perenne fibrillazione e l’amico operato due volte per un tumore, divideranno speranze e angosce. Durante l’estate del 1992, quando un Di Pietro già acclamatissimo tornerà a Montenero di Bisaccia per pochi giorni di vacanza, Pasqualino sarà praticamente l’unico ad avere libero accesso alla casa colonica della famiglia: diverrà un parziale portavoce e un riferimento per giornalisti e biografi; lo stesso Di Pietro lo indicherà come testimone e raccontatore ufficiale di quel surreale periodo da prete apprendista.

Quando Di Pietro temeva attentati e c’era da nascondere i bambini, li teneva Pasqualino a casa sua. Quando Di Pietro paventava davvero che l’avrebbero arrestato, nel dicembre 1996, fu a Pasqualino che dette incarico di tranquillizzare i suoi figli raccontando loro una storia edificante. Eccetera. L’epilogo di quest’amicizia che pareva indistruttibile si rivelerà tuttavia così sconcertante da spiegare il biografato meglio di cento altri episodi.

Ansa – Campobasso, 8 marzo 2002 – Una casalinga di 50 anni, Giuliana D’Ascenzo, è stata uccisa stamane nella sua abitazione alla periferia di Montenero di Bisaccia (Campobasso). È stata colpita al petto con un’arma da taglio ed è morta dissanguata sul pavimento della cucina. Il marito della vittima, Pasqualino Cianci, 52 anni, insegnante di inglese, ha detto di essere stato tramortito con un corpo contundente alla nuca ed è ancora ricoverato nell’ospedale di Termoli, dove avrebbe dichiarato ai carabinieri di essere rimasto vittima di un aggressore che tentava una rapina in casa. In tarda serata è atteso a Montenero di Bisaccia l’arrivo di Antonio Di Pietro, amico della famiglia Cianci, che probabilmente assumerà anche la veste di avvocato di parte civile.

Di Pietro era lui: aveva già avvertito la stampa del proprio arrivo. E Giuliana era lei, quella bambina di dieci anni con cui giocavano d’estate attorno alla Masseria. Dopo il ginnasio, Pasqualino era partito per Filadelfia e molti anni dopo l’aveva incontrata ancora e per caso a Chieti. Si erano sposati ed erano andati a vivere nella casa del suocero, davanti a quella di Tonino. I due amici si erano tenuti sempre in contatto, e Pasqualino in un momento di difficoltà aveva chiesto e ottenuto dall’amico persino un prestito di 60 milioni di lire. Il caso volle che si fossero incontrati anche la domenica precedente al fattaccio, a Termoli. Di Pietro li aveva nuovamente invitati ad andarlo a trovare su a Bergamo. Poi quel fatto orribile. Con Pasqualino, ancora sofferente in ospedale, che ricorreva all’amico del cuore che subito si catapultava: questa, almeno, la versione accreditata da Di Pietro. Pasqualino Cianci ha raccontato:

La sera stessa dell’omicidio me lo sono ritrovato accanto al letto dov’ero ricoverato. È diventato, non richiesto, il mio avvocato. Mi disse che era stata mia figlia a contattarlo, aggiungendo che dovevo andare orgoglioso di lei perché aveva gli attributi. Mi ha ospitato persino due settimane a casa sua dicendo che così ero più al sicuro.

Di Pietro diffuse un comunicato in cui si diceva rammaricato «perl’uscita di resoconti e locandine giornalistiche con affermazioni diffamanti e infondate come quella in cui si afferma che a essere indagato sarebbe un familiare». Quindi pregava i giornalisti «di non alimentare sospetti infamanti in questo momento di sofferenza delle persone offese», perché è deprecabile che «vengano additati all’attenzione pubblica persone già duramente colpite dal dramma». Una reprimenda severa. Intanto la salma di Giuliana veniva tumulata nel cimitero del paese, Di Pietro accanto all’amico.

Apposti i sigilli sul luogo del delitto, Di Pietro come detto ospitò Pasqualino a casa sua come ai vecchi tempi. L’amico era sconvolto e non usciva mai, non leggeva i giornali, non guardava la televisione e non rispondeva al telefono. Il suo avvocato intanto si mise a indagare e affidò un incarico medico-legale al consulente Armando Colagreco. Interrogò Antonio Sparvieri, consuocero di Pasqualino. I primi esiti dell’autopsia disposta su Giuliana rivelarono che era morta per strangolamento e che le coltellate erano state inferte a cose fatte. Come per depistare. Qui comincia l’incredibile. Chiuso e isolato nella masseria di Tonino, Pasqualino Cianci neppure seppe che il suo avvocato stava cominciando a mormorare in giro che l’assassino era lui. E Di Pietro diceva questo, attenzione, anche ai parenti, ai figli del medesimo. Ha raccontato Cianci:

Quando Di Pietro disse che se l’avessero arrestato dovevo star vicino ai suoi figli, per me voleva dire star loro vicino, appunto, trovare una chiave per raccontare una storia non dico edificante, ma una storia da raccontare a dei figli: mica mettersi a parlare della Karfinco e di Pacini Battaglia e dir loro magari che i miliardi, secondo me, il loro papà li aveva pure presi. Lui invece, a mia insaputa, andò dai miei figli e gli disse che potevo essere l’assassino della loro madre.

Il linguaggio dell’avvocato Di Pietro prese a cambiare anche pubblicamente: «Ho svolto costantemente le mie indagini che metto a disposizione della procura. La soluzione dell’omicidio della mia amica d’infanzia Giuliana dipenderanno dalla valutazione delle prove». Di Pietro tendeva a nominare meno Pasqualino e sempre più Giuliana, rinnovata «amica d’infanzia» e rinnovato riferimento affettivo. Questo mentre l’amico dormiva sempre a casa sua, ignaro.

Un giorno Tonino passò a prenderlo perché disse che c’era una formalità da sbrigare. Per una faccenda di nomine e di risarcimenti serviva che uno o più parenti mettessero la firma su una carta, scartoffie. Ancora confuso com’era, accompagnò il suo avvocato da un paio di parenti e non capì che cosa stavano firmando. Certamente neanche loro. Tutto quello che il grande Tonino suggeriva andava sempre bene. Di Pietro poi prese da parte Domenico Porfido, un avvocato già consigliere regionale dell’Italia dei Valori che era amicissimo pure lui di Tonino e di Pasqualino. Siccome doveva andare e venire da Bruxelles, gli disse Di Pietro, poteva essere una buona idea che lui l’affiancasse nella difesa: lui fisso, Tonino pendolare. Ottimo, l’idea piacque anche a Cianci, che gli firmò la nomina.

Il 19 marzo Di Pietro era in macchina con Pasqualino e gli disse: «Ferma un attimo, sbrigo una cosa in procura». Entrò e mise agli atti la rinuncia al mandato. Poi risalì in macchina con l’amico, cui non disse niente: come a nessun altro, tantomeno all’avvocato Porfido. Presto avrebbe depositato anche alcune dichiarazioni che aveva raccolto dal consuocero di Pasqualino, a sua difesa, ma in forma di accusa. Chiederà che siano acquisiti alcuni documenti che aveva trovato a casa dell’amico e che siano fatte indagini su alcuni suoi movimenti bancari. Porterà in questura, sempre di nascosto, il passaporto di Pasqualino.

Cominciò a porsi qualche domanda, Pasqualino, quando un giorno incontrò la figlia. Non l’aveva ancora ringraziata per quant’era stata tempestiva e intelligente nel chiamare Tonino come suo avvocato: ma lei cadde dalle nuvole, lei non lo aveva chiamato per niente. L’amico gli aveva raccontato una balla. Poi toccò alla figlia chiedere al padre se fosse stato lui a chiamare quelli di «Chi l’ha visto?» che scorrazzavano in giro. Ha raccontato Cianci:

Non era un gran momento per lui. L’Italia dei Valori era fuori dal Parlamento e lui in Molise non solo non aveva vinto, ma era arrivato pure terzo. Io ero un uomo distrutto. A quel punto gli feci una domanda secca, a muso duro: «Senti, non è che stai cercando i riflettori con questa storia di Pasqualino amico tuo? Non è che stai a terra e allora vuoi far vedere che sei così giusto che arresti pure l’amico migliore?». Io volevo solo un sì o un no, e glielo dissi. Lui ebbe una reazione di stizza, non mi disse niente e mi spintonò contro il muro.

Nell’arco di pochi giorni, il 4 aprile, l’amico fu indagato. E il 17 aprile fu arrestato dai carabinieri di Termoli per omicidio volontario. Immaginarsi in paese. La figlia, Debora, ne gridò l’innocenza come sempre farà. Le parole di Tonino si fecero definitivamente ambigue: «Difenderò la vittima, chiunque sia l’assassino». Pasqualino sempre più allucinato:

Se lui si comporta in un certo modo per fini politici, è libero di farlo, ma io ero il suo miglior amico di sempre. Tu non puoi venire a mangiare e dormire a casa mia e poi andarmi ad aprire i cassetti, e se per caso trovi qualcosa andarmi pure a denunciare. Avrei preferito che mi dicesse: scusa, preferisco non difenderti. L’avrei capito. E invece non mi ha mai dato chiarimenti. Questa è una storia che voglio chiarire a tu per tu, mi deve guardare negli occhi e mi deve spiegare questi quarant’anni di amicizia traditi a quel modo. Io sono qui, il mio numero ce l’ha. Io non lo giudico come magistrato, come politico, e alla fine nemmeno come avvocato. Lo giudico come l’uomo che non è.

Debora e suo fratello erano figli del sospetto assassino ma anche dell’assassinata, dunque parti lese, vittime. Ma non avrebbero mai accettato di costituirsi contro il padre, anche e soprattutto perché credevano alla sua innocenza. Di Pietro l’aveva capito: ecco perché si era fatto accompagnare da qualche altro parente che firmasse senza capirci troppo. Il 17 gennaio 2003, da Busto Arsizio, Di Pietro spedì ai due figli una raccomandata-capolavoro che non conobbe imbarazzo:

Carissimi, per come si sono messe le cose ho il dovere di farmi da parte per consentire a voi di stare in maniera migliore vicino a vostro padre … Vi ricordo che mi venne espressamente richiesto (da voi a da tutti gli altri familiari di Giuliana, vostro padre compreso) di assistervi nella vostra qualità di parti lese. È solo questa la ragione per cui ho accettato l’incarico e ho svolto le relative indagini difensive … Dovendo io rispettare la vostra coscienza, le vostre convinzioni e il vostro dramma umano, non posso che dimettermi dall’incarico. Incarico che ho già provveduto a rimettere anche nelle mani dei vostri nonni e zii ma che mi è stato da essi riconfermato. Nei loro confronti, per un dovere morale che sento di avere verso l’indifesa Giuliana, continuerò a svolgere il mio mandato.

In altre parole: Di Pietro, mollato dai figli una volta inteso che non voleva difendere il loro padre ma sbatterlo in galera, per tenere un piede nel processo era ricorso a nonni e zii materni.

Ed eccoci direttamente al 18 gennaio 2005, prima udienza del processo di Corte d’assise contro Pasqualino Cianci. Antonio Di Pietro, come visto, era diventato avvocato di parte civile contro di lui grazie a un curioso «mandato collettivo» del parentado. Eccolo coi giornalisti: «Abitava vicino alla mia casa di campagna, da ragazzi abbiamo pascolato insieme tante mucche e pecore». Ma stava parlando di lei: «Sono qui per difendere la memoria di una donna perbene che è stata uccisa».

La sentenza fu il 31 gennaio 2007. Il pubblico ministero Luca Venturi aveva chiesto l’ergastolo. La parte civile, Di Pietro, aveva cercato di individuare dei pazzeschi retroscena per tutto il processo: aveva scavato nelle precedenti attività dell’ex amico del cuore e controllato e ricontrollato i contatti con esponenti politici, i viaggi all’estero, i movimenti bancari, eventuali debiti o affari loschi che la moglie avesse potuto scoprire. Più che avvocato, magistrato. Più che magistrato, poliziotto. Furono i giudici a spiegare che alla fine si trattava solo di un uxoricidio a Montenero di Bisaccia.

Pasqualino Cianci per tutto il tempo era rimasto saldamente ancorato alla proclamazione d’innocenza e alla sua ricostruzione della prima ora, puntando sull’assenza di un movente credibile: conoscenti, amici e la figlia avevano testimoniato che i due andavano d’amore e d’accordo. Poi, dopo nove ore in camera di consiglio, la condanna a 21 anni e 6 mesi di carcere.

Pasqualino Cianci ha fatto Appello. Anche la pubblica accusa attende l’Appello: ha ritenuto 21 anni e mezzo una pena troppo bassa.

Pochi mesi dopo, l’Ordine degli avvocati di Bergamo ha sospeso Antonio Di Pietro per violazione dell’articolo 51 del Codice deontologico: 5 aveva assunto la difesa di una persona e in un secondo momento si era costituito contro di essa. Da avvocato accusatore, durante il processo aveva citato un teste che aveva interrogato come avvocato difensore. Domenico Porfido, anche lui amico di una vita, ingannato, romperà con Di Pietro dopo quarant’anni di amicizia e abbandonerà l’Italia dei Valori. Fu lui a redigere il ricorso all’Ordine degli avvocati che rivelerà come le attività dell’avvocato Di Pietro fossero state utili alla condanna. Dopo la decisione dall’Ordine forense, nel novembre 2007, Di Pietro ha dichiarato:

Ho richiesto io la sospensione dall’Albo degli avvocati … Appena avrò tempo spiegherò la storia che l’Ordine degli avvocati di Bergamo non ha voluto leggere, ritengo per valutazioni preconcette verso un ex pm che ha lavorato nello stesso territorio. Peraltro, la persona che ha fatto scattare la sospensione dall’albo è già stato riconosciuto colpevole da un tribunale e condannato a vent’anni per aver assassinato sua moglie … Su questa storia si potrebbe scrivere uno di quei romanzi che vedono alla fine il protagonista, suo malgrado, subire critiche nonostante egli abbia agito per la ricerca della verità e nel rispetto della legge. Come sono sicuro verrà accertato dal Consiglio Superiore dell’Ordine degli avvocati, giacché questa è solo una pronuncia di prima fase.

Il tentativo di anticipare ogni mossa, ergendosi ad artefice delle decisioni altrui e prospettando come gradito anche quello che non gli è gradito per niente, sarà una costante della biografia di Antonio Di Pietro. Le «valutazioni preconcette» dell’Ordine degli avvocati, da lui citate, sono riferite al periodo che passò da pm a Bergamo più di ventidue anni prima, dal 1983 al 1985. Il richiamo alla «persona che ha fatto scattare la sospensione», ossia al suo ex amico del cuore Pasqualino Cianci, si spiega solo con un tentativo di delegittimarlo in quanto condannato per assassinio. Per quanto riguarda la mera «pronuncia di prima fase», infine, nel marzo 2009 il Consiglio superiore degli avvocati ha confermato la sanzione con parole non proprio leggere.

Ruoli e significati dell’avvocato difensore, come visto, a Di Pietro paiono sfuggire o comunque non interessare. Per quanto lo riguarda egli non ritiene che i diritti dell’assistito vadano garantiti sempre e comunque, ma solo in caso di innocenza intesa come assoluzione. Non gli importa di porsi come una parte giuridica contrapposta a un’altra, ma come il sacerdote della verità: questo in tutti i mestieri che ha fatto in vita sua. Suo obiettivo non è tendersi come un nobile soccorritore di amici o dignitoso limitatore di danni, ma come paladino vincente del giusto contro lo sbagliato. Lui arresta anche il migliore amico, nel caso: questa la sua trovata in un momento di stanca, in un momento di pausa nella sua corsa da criceto nella ruota politica.

È noto che le più varie circostanze possono contribuire ad assolvere colpevoli o condannare innocenti, giacché la verità e la verità processuale non sempre coincidono: nel caso di Di Pietro, poi, dopo le esperienze bresciane, da non parlarne. Ma nel caso di Pasqualino Cianci, da un preciso momento in poi, molto lasciava intendere che sarebbe stato condannato in ogni caso. Data la particolarità della situazione, Di Pietro poteva scegliere di astenersi, ma non lo fece: non lo ritenne un modus compatibile con la propria immagine pubblica. È passato ufficialmente ad accusare l’amico. Può darsi che abbia abbandonato la sua difesa perché lo riteneva colpevole, o può darsi che l’abbia abbandonata perché pensava che il tribunale l’avrebbe comunque condannato.

Ancora paralizzato dallo stupore, ma custode di un’idea di amicizia perlomeno propria, nei giorni precedenti un delicatissimo intervento chirurgico, Pasqualino Cianci non ha voluto fornire nessuna notizia utile a parlar male dell’amico:

Io non parlo male di lui, io sto male all’idea di dover parlar male di lui. La cosa peggiore nella vita è quando temi di non aver capito niente, di aver sbagliato veramente tutto. La cosa peggiore è il rimpianto.

A sopraffare è uno stordimento. A cercare ogni volta una spiegazione dell’inspiegabile, la storia ricircola come un mantra: Antonio Di Pietro ha un solo amico del cuore, uno solo; questo amico è accusato d’aver ucciso la moglie e Di Pietro gli si presenta nel momento del bisogno, diventandone avvocato; Di Pietro finge di difenderlo pubblicamente e lo valorizza come amico d’infanzia, ma trama di nascosto contro di lui; poi l’amico viene arrestato e Di Pietro passa ad accusarlo con gli stessi materiali raccolti per difenderlo, e valorizza come amica d’infanzia la moglie trucidata; per tenere un piede nel processo, infine, ricorre ai nonni; l’amico viene condannato a 21 anni e rotti.

Poi comincia il libro.

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37 Commenti

  1. a quando una biografia di travaglio?

    (altrettanto obbiettiva e scevra di pregiudizi politici di parte, ovviamente)

  2. ce lo avevi giurato
    che non saresti tornato.
    e invece anche questa volta lo hai rifatto.
    vabbè a sto punto scrivi che pure che sei il miglior giornalista degli ultimi 150’anni….

  3. prevedo che presto di pietro comprerà un nuovo appartamento con i soldi del biondo e dell’editore silviolo

  4. Ma guarda te che delinquente sto Di Pietro. Addirittura contribuisce alla condanna di uno che ha strangolato la moglie e poi l’ha accoltellata per sviare le indagini. Sono cose che non si fanno, sopratutto se l’uxoricida è il tuo amichetto di infanzia. Ghedini non l’avrebbe mai fatto, ne sono sicuro.

  5. Esimio Facci,
    un giorno navigando sul www, cercando indagini e sentenze, mi sono imbattuto nelle sventure di alcuni giornalisti lombardi in rotta di collisione con la locale stazione dei militari della Benemerita.
    Per farla breve, sti disgraziati dopo 4 anni di processi sono stati condannati in via definitiva a tot mesi di galera per aver ascoltato via radio le comunicazioni NON criptate dei militari (per arrivare tempestivamente sui luoghi dei delitti).
    L’avvocato della causa persa era un certo Antonio di Pietro…

    A parte la figuraccia del Tonino Nazionale, chi lo spiega ai seguaci del Partito delle Manette che un ex sbirro, ex PM, invece di limitarsi a fare il politico giustizialista, si diletta pure a difendere gli imputati nei processi penali?

  6. Su annozero, ieri, una giovane del PDL urlava come un ossesso contro le escort che cercano la carriera facile..qui si condanna Di Pietro per aver fatto mettere in galera un uxoricida, Schifani dice che e’ un indecenza..Bossi si gongola con barbarossa…ma fin dove siete disposti ad arrivare?

  7. bella fratè!

    di pietro… il gemello invidioso semiscolarizzato di berluska..
    Se non ci fosse stato il di pietro magistrato non avremmo berlusconi premier , se non avessimo berlusconi premier non avremmo il di pietro politico

  8. Tanta fuffa scritta come al solito molto male.

    Se questo e’ il livello del materiale che sei riuscito a raccogliere, vai pure tranquillo il libro sara’ una vera bomba.

    Paragonabile solo al tuo tristissimo reportage su Grillo.
    Quello in cui, da vero uomo, parli dei problemi motori del figlio tanto per intenderci.
    Geniale!

  9. Mi sono letto questo lungo preambolo alla biografia spazzatura che sta per uscire, mi vergogno io per Facci. Il migliore amico d’infanzia di Di Pietro è stato accusato di aver ammazzato sua moglie. In un primo momento DP lo ha difeso e sostenuto legalmente, ma quando ha accertato che era davvero colpevole, l’ha mollato al suo destino. Io uomini così non dico che li santifico, ma quasi… per Facci invece sono la merda. Differenze di valori.

  10. Quando leggo sulla copertina di un libro il sottotitolo “la storia vera”, non comincio nemmeno a sfogliarlo.

  11. Vero! Poi se sulla stessa copertina leggi che “la storia vera” e’ scritta da Filippo Facci allora capisci subito l’entita’ del danno ecologico perpetrato e ti prende una tristezza infinita.
    Bravo Filippo, continua cosi’.

  12. un libro di 500 pagine di Facci su Di Pietro. Qui si danno nuovi significati alla parola “imperdibile”.

  13. facci torna alla cocaina
    rende di +
    salvi qualche albero
    scarichi la tensione ormonale
    conserva il biondo colore della chioma

  14. vedi la pagliuzza del DP avvocato
    e non vedi la trave che il PD vi ha infilato nel culo
    (a te schiavo, nella anima,
    agli italiani pecorecci
    e al senso dello stato e della legalita’)

    come sei “carino” pupo biondino
    che non vede aldila’ del tirino

  15. ma sto facci non ce lo ha un po’ di sensodelridicolo (SENSO DEL RIDICOLO) hai presente filippo ???
    ma possibile che dopo decine centinaia di secchiate di merda prese ancora sta qui a presentare ste minchia di inchieste vuote (VUOTE) ??

    eddai facci . .. trovati un lavoro

  16. Cioè, “la storia vera” sarebbe la versione – senza contraddittorio – di uno che ha tutto l’interesse a sputtanare Di Pietro e la cui credibilità è per lo meno dubbia? Ma per favore. Io non so se le tesi espresse siano vere oppure no, se Di Pietro abbia assunto la difesa per farsi pubblicità, se sia un delinquente; non lo escludo affatto. Però se il preludio al libro su “la storia vera” è questo, il libro non promette bene.

  17. «Cioè, “la storia vera” sarebbe la versione – senza contraddittorio – di uno che ha tutto l’interesse a sputtanare Di Pietro …»
    È meraviglioso quel senza contraddittorio.
    Uno scrive un libro e: perdiana, non è intervenuta una straccio di authority a imporgli un contraddittorio.
    Ma per la miseria, qua noi ci paghiamo il canone e pure le tasse! Lo sdegno. La dittatura. La censura. I santini sulla mensola e gli enormi interessi che stanno dietro al loro sputtanamento. Le multinazionali. ecc.

  18. facci somiglia verosimilmente al pinocchio del celebre film del grande Nino Manfredi.
    Anche la testa è la stessa,di legno.
    Sor filippo facci ride ancora và….

  19. Facci sei un incompreso, meriti il Pulitzer. A quando la biografia dell’Uomo Mascherato?

  20. In realtà è un astuto messaggio politico di supplica per non essere lasciato andare giù quando la barca affonderà.

  21. Leggerò il libro. E poi forse dirò cosa ne penso. Nel frattempo, queste righe qua sopra sono banali, senza offesa. Ma il punto, come di dice, è un altro. Mi pare che l’obbiettivo è quello di dimostrare che Di Pietro sia un furfante. Va bene. Può anche essere. E allora?

    A me pare che tutti i difensori del centrodestra italiano spostano sempre l’argomento: cioè, non dicono se un fatto imputato a Berlusconi sia vero o meno. No, si mettono lì a dire che chi denuncia il fatto è un evasore, è un frocio, è uno che vuole fare carriera. Mai sul punto, cazzo. Il presidente del consiglio pagava o no le puttane? E’ semplice, basta dire sì o no. E possibilmente argomentare.

    PS
    Sbaglio, o qualche anno fa, Il Giornale dovette pagare dei soldini a Di Pietro e dedicargli due pagine di giornale a mo’ di risarcimento?

  22. Sono gli articoli di cronaca già pubblicati quando il Facci scriveva sul “Giornale” Berlusconiano fino a qualche mese fa;…oggi, purtroppo per lui, data la reciproca avversione tra Lui e il Feltri, la Mondadori, sempre di Berlusconi, gli ripubblica i suoi articoletti sputtanatori del loro mortale nemico, riveduti e corretti come se fossero un grande libro inchiesta, poi sicuramente la pubblicità Mediaset gli pomperà anche le vendite…embè è così, speriamo ancora per poco, gira il mondo all’italiana nei mass-media e nella politica al servizio di Berlusconi!!!

  23. sei ossessionato da di pietro…di la verità che sotto sotto ti faresti sodomizzare da un omaccione come lui
    (invece che dai mariogiordano)

  24. mica ho capito qual è lo scandalo… uno schifoso uxoricida se fosse stato in mano mia, allora sì che sarebbe venuto fuori lo scandalo: l’avrei riempito di mazzate…

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